“Custode di mio fratello” di Mario Santamaria: un romanzo che non fa sconti

Custode di mio fratello” di Mario Santamaria (Giulio Perrone Editore) è stata una lettura spietata, una di quelle che lascia tracce, senza fare sconti.

TRAMA – Lucio e Caio sono fratelli e non si vedono da ventisette anni, da quando il padre, ex-membro di Terza Posizione, è fuggito in Inghilterra. Da allora, hanno preso strade molto diverse. Il primo è un anestesista che salva i migranti. Il secondo è un carrozziere di periferia rimasto ancorato al mito fascista del padre. Le loro vite saranno costrette a intrecciarsi di nuovo a causa delle minacce della mafia nigeriana e dell’arrivo improvviso da Londra di Adeel, la sorella adottiva di cui nessuno dei due sapeva nulla.

La verità esiste solo mentre succede ed è sempre più buia della sua ricostruzione.

Non è mai semplice provare a raccontare un romanzo come “Custode di mio fratello“. Non lo è nella misura in cui si ha la sensazione che, qualunque punto di osservazione si scelga, o da qualunque punto si parta, sfuggirà sempre qualcosa.

Succede con i romanzi di “pancia” (di sangue, di cenere), con quelli crudi, che si muovono su più piani narrativi, ma soprattutto di comprensione, che pungolano il lettore, ma non mettendogli davanti delle domande, bensì invitandolo a farsene per conto proprio, a capitolo finito, a lettura ultimata.

La prima che io mi sono fatta, sin dalle prime battute di “Custode di mio fratello“, è stata: chi lo stabilisce il merito? A essere del tutto sincera è stata una evoluzione, perché all’inizio credevo di dovermi interrogare sul metro della giustizia, avventurandomi in sentieri che includevano le diversità e le condizioni di partenza, ma alla fine si è palesato il concetto di “merito”, che si trascina quella domanda subdola e ineluttabile: “Perché io no e lui/lei/loro sì?”.

Una domanda puramente egoista, che non pone mai l’accento verso gli altri se non per disprezzarli, per deriderli, per mortificarli; eppure, nel momento in cui sono a farsela Lucio e Caio, Luc e Xud, assume i contorni di una serie di gesti rivolti all’esterno – cosa significa merito quando è in ballo la mera sopravvivenza? – una connotazione altruistica che ha per i due fratelli sfumature molto diverse, e che finisce per essere un altro tassello che li accumuna, sebbene entrambi preferiscano sottolineare quanto siano distanti.

Distanti, sì, ma in che termini? Fisici, emotivi? “Mica sono il custode di mio fratello”, dicono entrambi più volte, però eccoli lì, a esserci, a respirare la stessa aria carica di rimpianti, a controllare una cicatrice che è monito e forse anche un presagio, a dirsi freddi quando è solo un calore familiare che rincorrono, a professarsi estranei mentre è un legame che inseguono, nei modi più distorti che solo il sangue sa dettare.

In “Custode di mio fratello” si inanellano una serie di eventi che porterà i due fratelli a orbitarsi intorno quando hanno evitato di farlo, negli ultimi ventisette anni. Entrambi, ognuno a modo loro, impegnati ad aiutare gli altri, i bisognosi, quelli a cui nessuno pensa, si ritrovano in una spirale dentro la quale la richiesta diventa pretesa, finendo per gravare e macchiare l’intenzione che si cela dietro a una scelta.

Cosa succede quando nell’ideale si intromettono una strada di privilegio tracciata con i soldi, la forza, il sopruso? Quanto a lungo si può sopportare quella stanchezza che vorrebbe farci dire di no, anche se la ragione (il dovere?) ce lo impedisce? Come si sopravvive si vorrebbe dire di no ma non ci viene data la possibilità di farlo?

Un malcelato segreto di famiglia striscerà nel loro presente, sotto forma anche in questo caso di richiesta, ma presentata con un invitante involucro: una sorella adottiva, volata a Roma dall’Inghilterra. Adeel, con due e, che giocherà due partite ben distinte, usando spesso gli stessi gesti, le stesse parole.

Mario Santamaria descrive in modo molto interessante la tensione che si instaura tra Luc e Adeel, tra loro due è tutto un “e invece” che scombina le carte, che spariglia, ma che lascia tracce che verranno soppesate; ma è nelle pagine di Xud che il mio cuore ha scalpitato, in quel tendersi verso che non arriva mai a sfiorare, in quella penombra usata come scusa, in quel desiderio ricacciato giù insieme alla bile, in quelle bugie a cui non si sceglie di credere.

Credo che Xud si sia fatto strada dentro di me senza che nemmeno me ne accorgessi, e ho empatizzato molto con lui lungo la lettura di “Custode di mio fratello“. Mario Santamaria nel tracciare questo personaggio è stato molto bravo sia a mostrarne la maschera, che a tracciare gli schizzi di quello che c’è sotto, che probabilmente nemmeno Xud stesso conosce. Una porta appena socchiusa che permette al lettore di dare una sbirciata e di concedersi un sorriso amaro.

A fine lettura, un’altra domanda mi è venuta in mente: dimenticare, quindi, è una condanna o un premio di consolazione? Forse la risposta sta nella storia che riesce a tracciare ognuno di noi.
O forse è meglio solo interrogarsi, magari leggendo un buon libro, che trovare delle risposte.

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