“Oblomov” di Ivan Goncarov: ecco cos’è l’oblomovismo

“Oblomov” di Ivan Goncarov è davvero un grande romanzo. All’inizio non pensavo di avere tra le mani un capolavoro del genere ma mi sono dovuta ricredere durante tutta la lettura.

TRAMA – La vita passa davanti al giovane, ricco Ilia Ilyic Oblomov. Gli passa davanti il benessere, garantito dalla tenuta di Oblomovka, gli passa davanti la quotidianità sempre uguale, spesa spostandosi da un comodo divano all’altro in preda a sterili pensieri astratti. Gli passa davanti la possibilità di dar corpo ai sogni idealistici della gioventù, su sollecitazione del vitalissimo amico Stolz. E gli passa davanti l’amore, incarnato dalla bella e sensibile Olga. In un linguaggio che nulla ha da invidiare alla perfezione di Puskin o al feroce realismo di Gogol’, Goncarov dà forma a un universo apparentemente immobile ma in realtà freneticamente vivo di osservazioni, pensieri e annotazioni, sostanziando uno dei massimi capolavori della letteratura russa.

Scriveva Giorgio Manganelli in merito a “Oblomov”: “O lo conoscete e vi ha sedotto, e una recensione non può dirvi nulla, o non lo conoscete, e allora, per favore non perdete altro tempo con queste fatue righe, e andate a leggerlo”. E io non potrei essere più d’accordo, ma proviamo lo stesso a parlarne un po’.

I personaggi come Oblomov sono stati etichettati come “superflui”, “inutili”, uomini che “non sapevano farsi una posizione” e sono presenti in moltissimi capolavori della letteratura russa, a riprova del fatto che fossero l’immagine di una determinata epoca e lo specchio della società di quel tempo.

Paolo Nori, nell’Introduzione all’edizione Feltrinelli, scrive: “Una delle cause possibili di questa situazione risiede nel fatto che quella generazione, i russi colti della prima metà dell’ottocento, era stata forse la prima generazione di russi ad avere contatti frequenti con l’occidente, avevano vinto Napoleone e si erano spinti fino a Parigi, e avevano letto gli illuministi, e avevano frequentato le lezioni di filosofi tedeschi, e, le teste piene di libertà, uguaglianza, fratellanza e idealismo, erano tornati in Russia, la loro patria, dove c’era ancora la servitù della gleba, e uno stato corrotto e arretrato, e avevan scoperto che non potevan far niente”.

E niente è proprio quello che fa Oblomov. Si smarrisce nelle più piccole preoccupazioni, anche scrivere una lettera diventa un’impresa impossibile, rimane sdraiato a letto per tutto il giorno, e non era una necessità, né un piacere, ma una “condizione normale”.

In più, non sa nulla. Non sa quanto guadagna, quanto spende, non fa nessun bilancio, è un indolente facilmente raggirabile – come infatti succederà – ma di cuore buono, un carattere mite che, per fortuna, gli procura anche buoni amici che si prendono cura di lui. All’inizio della lettura l’ho trovato snervante e svilente, ma poi ho imparato a conoscerlo e ho capito, come ha fatto lui stesso, che non c’era alcuna possibilità di un cambiamento.

Di pari passo a questa inerzia del corpo, ogni giorno va avanti un continuo lavorio della mente. Parla dell’elaborazione di “un piano”, ha ben chiaro quale sarebbe il suo concetto di pace e di quiete, ma come fare per raggiungerli? Per portarli a compimento? Il pensiero inciampa quando per completarsi ha bisogno dell’azione. E lui ne è consapevole.

“Perché sono così?” si disse quasi con le lacrime agli occhi Oblomov, e nascose di nuovo la testa sotto la coperta. “Davvero, perché?”.

E ancora, con una considerazione di sé ineluttabile: “Dal primo momento in cui ho avuto coscienza di me stesso, sentivo che già mi stavo spegnendo”.

Una qualche spiegazione l’autore prova a fornircela, raccontandoci uno squarcio dell’infanzia di Oblomov, di come sia stato cresciuto viziato e iperprotetto: “Triste, rimaneva in casa, vezzeggiato come un fiore esotico in una serra e, allo stesso modo, come un fiore sottovetro, cresceva lentamente, e con fiacca. Le forze che cercavano di svilupparsi si rivolgevano all’interno e, senza arrivare a fiorire, appassivano”.

E così, nel presente, Oblomov continua ad appassire. Al suo fianco, per fortuna, l’amico di infanzia Štol’c, pronto a proteggerlo, a spronarlo per quanto gli concedano la forza e la pazienza, a comprenderlo.

“Questa non è vita!” ripeté, testardo, Štol’c.
“E cos’è, secondo te?”
“È… (Štol’c si mise a riflettere e a cercare il modo di definire questa vita). Un qualche… oblomovismo”.

Ed ecco coniato un termine che si usa ancora oggi per indicare un generico atteggiamento di apatica e fatalistica indolenza.

Qualcosa nella vita di Oblomov cambia quando, costretto a trasferirsi, conoscerà due donne. La giovane Ol’ga, piena di vita, di spirito, di freschezza, e Agaf’ja, la vedova padrona di casa, silenziosa, servizievole, devota, senza alcuna pretesa al mondo.

La vicinanza di Ol’ga farà accendere una scintilla nel petto di Oblomov, si farà più attivo, anche se non proprio propositivo, dormirà di meno, anche se ozierà comunque. Insomma, anche l’amore non riuscirà a cambiare l’indole del protagonista. Alla sola idea di cosa comporterebbe organizzare un matrimonio ha avuto un mancamento e notti insonni.

Ma sarà Agaf’ja che Oblomov guarderà “con lo stesso piacere con cui alla mattina aveva guardato le frittelle calde” (e qui avresti già dovuto capire molte cose…). Quello che mi ha fatto veramente sognare di queste pagine è il modo in cui Oblomov si appassiona e descrive i gomiti della donna.

I gomiti.

Mai avrei pensato che i gomiti potessero essere così sensuali, come il loro movimento potesse dare indizi sulla persona che si guarda di nascosto, provando a non farsi notare, come il loro continuo e instancabile lavorio potessero dire molto sul carattere di una donna.

Sono bellissime le pagine in cui l’autore descrive questi due diversi tipi di amore, come nascono, come si sviluppano. Sono diversi, per cui meritano attenzioni differenti, e sono magistralmente raccontati, sondando nell’animo dei tre personaggi, raccontando il loro trambusto interiore.

Non sarà difficile immaginare come finirà, ma il romanzo racchiude molto di più che va scoperto con la lettura.

Agaf’ja è uno dei personaggi secondari che più mi ha colpita. La sua è una vera e propria venerazione, una rinuncia alla vita, un’abnegazione fatta di dovere, di ammirazione, di amore, in un gioco di mescolamento che non impone nulla se non mera accettazione del proprio destino. Non sarà obiettiva, non sarà lucida in alcuni momenti, ma conserverà sempre un’onestà e una fede incrollabili.

Oblomov” è senza ombra di dubbio un capolavoro che merita di essere letto, vissuto e amato.

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