“La notte della rabbia” di Roberto Riccardi: un libro da leggere tutto d’un fiato

Ho letto davvero tutto d’un fiato “La notte della rabbia” di Roberto Riccardi (Einaudi), un noir a tinte forti, una scrittura schietta che non fa sconti, una polifonia di voci e di sentimenti che attanaglia il lettore, rendendolo avido, quasi schiavo di una risoluzione.

TRAMA – Roma, 1974. I terroristi delle Sap hanno rapito il professor Marcelli, astro nascente della politica nazionale. Le indagini che il colonnello dell’Arma Leone Ascoli avvia insieme al giudice Tramontano si presentano subito complesse. L’unico appiglio è la presenza di una testimone. Come se non bastasse, alla porta dell’ufficiale bussa «Bepi», un ex partigiano che gli ha salvato la vita ad Auschwitz: l’uomo gli comunica che l’aguzzino del campo si trova in città sotto falso nome e gli chiede di consegnarglielo. Il problema è che l’ex SS è diventato un agente doppio, in bilico fra le due anime di una Germania divisa dalla conferenza di Yalta. Intanto le Sap lanciano un ultimatum: o lo Stato libera il loro capo, o Marcelli verrà giustiziato. Per Ascoli sono ore drammatiche. Nella sua mente passato e presente si rincorrono, e sono molte le cose con cui si trova a fare i conti: prima fra tutte la sua coscienza.

C’è tanta “carne al fuoco” in “La notte della rabbia”, quindi vi chiedo di perdonarmi già da adesso se andrò per le lunghe. Per prima cosa mi vorrei soffermare sui personaggi di questo romanzo, in molti casi costruiti come delle matrioske. Chi sono “i buoni”? Chi sono “i cattivi”? I ruoli sono spesso invertiti; “chi aveva portato notizie adesso ne cercava, chi era stato lepre diventava inseguitore”; i contorni offuscati. Ci sono spie all’interno delle forze armate, e ragazze ingenue in mezzo ai terroristi. Ci sono figli, padri, vedove, anime perse, solitudini che si incontrano.

Ma si può mai davvero etichettare qualcuno? “Carabiniere”, “Moglie”, “Ministro”, bastano a identificarci? Il primo fra tutti a farmi venire in mente queste domande è stato Leone Ascoli, schivo nelle sue molteplici sfaccettature, un “albero che fa molta ombra”, un uomo sdoppiato, lacerato da un passato che gli impedisce di pensare al futuro, diviso da un dolore al quale pochissimi sopravvivono e che, al momento della resa dei conti, non gli fa più capire chi è veramente, lasciandolo al buio.

Non era più Leone Ascoli, comandante del reparto antieversione. Era tornato A-5786, la scritta impressa a fuoco sul suo avambraccio sinistro. Per darsi forza si sollevò la manica e fissò quel tatuaggio indelebile. Era l’autografo del male.

Credo che il confronto tra lui ed Helmut Brandauer sia uno dei momenti più emozionanti del libro: giocare a carte scoperte può essere una liberazione e insieme una condanna.

Torno ai personaggi del libro per parlare al contempo della scrittura di Riccardi. L’autore è capace, anche con un frase piccola, di tinteggiare un’emozione e di far capire perfettamente al lettore chi ha messo su carta. Come quando il Soffia incontra Ascoli e Berardi e il capitolo si chiude così: “Si chiese come sarebbe stata la sua vita, se avesse avuto per padre uno di loro”. Meno di venti parole per racchiudere il dolore del passato di un uomo, giunto a nuova vita e nuove consapevolezze.

Io amo in modo particolare i personaggi più che secondari, quelli che si incontrano solo per poche righe e di cui non si ricorda mai nessuno. Mi ha fatto molto piacere constatare che in questo libro anche loro sono tratteggiati a chiare lettere. Come il brigadiere Panetta, che mi ha strappato un sorriso in più di un’occasione, o “la brunetta che distribuiva il vitto”, desiderosa di attenzioni e fragile nella sua spregiudicatezza; oppure l’usciere Tonino Capece costretto a fare “la guardia al niente” mentre tutti gli altri, dotati di un televisore, potevano assistere “al dipanarsi della Storia”, e così via. Spesso, calamitati dalla storia e dall’inarrestabile svolgersi degli eventi, non riusciamo a cogliere la sottigliezza di una scrittura così evocativa anche nei dettagli più piccoli, o addirittura insignificanti nel quadro generale, ma che contribuiscono ad arrichiere un’opera quasi senza che il lettore se ne accorga.

Riccardi ha costruito un romanzo che ha tantissime voci, e di ognuna di loro si è preso cura. Non fa distinzione tra i terroristi o i carabinieri, tra la portiera dello stabile o il giudice, tra la segretaria e il ministro: di ognuno di loro ha consegnato un ritratto fedele, scavando anche nelle emozioni più profonde, celate. So che può sembrare incredibile e no, il romanzo non è più di mille pagine: per rendervi appieno conto della potenza narrativa della scrittura dell’autore, dovete leggere il suo libro.

Come c’è una polifonia di voci, c’è anche una varietà di sensazioni raccontate nelle pagine de “La notte della rabbia“. Forse troppe per essere analizzate nel dettaglio, specie perché ci sono molteplici sfumature che rientrano nelle grandi categorie che possono essere “amore” o “odio”. Ciò che le pagine di questo libro ci restituiscono è quello che si ottiene mescolando queste sfumature. Cosa verrà fuori unendo rabbia, disgusto e sete di vendetta? Cosa invece miscelando frustrazione, distacco e amore non corrisposto? Di ogni personaggi di questo libro potrete cogliere queste sfaccettature e capirne i sentimenti. Vi prego, prendetevi il tempo per farlo, perché ne verrà la pena.

Non posso non chiudere parlandovi dei temi affrontati in questo libro. La vicenda narrata inevitabilmente ci riporta alla memoria il rapimento Moro e gli anni di Piombo. Io non ero ancora nata, ma sono palermitana e so cosa vuol dire camminare su strade lastricate di sangue. Vi capita mai di ripensare ad alcuni grandi eventi – il più delle volte ci restano in mente quelli tragici – e ricordarvi esattamente dove eravate e cosa stavate facendo quando avete appreso la notizia? Il giorno in cui hanno ammazzato il giudice Falcone io tenevo mia madre per mano, e l’aria si è fatta più densa. Me lo ricordo come se fosse ieri. Penso che allo stesso modo in molti si ricordino dell’uccisione di Moro, degli atti di quel terrorismo che non sembra poi così distante da quello che oggi tiene in ostaggio il mondo intero.

Quel terrorismo fatto di proclami, di lavaggio del cervello, di slogan imparati a memoria senza capirne il senso. “È scritto anche nei nostri manuali che dobbiamo conoscere il nemico”, dice Nadia. “È scritto nei manuali”, quindi va fatto. Una frase che oggi si potrebbe sostuire con “È postato su Facebook”, motivo per il quale è sicuro corretto o giusto (un po’ come quando le nostre nonne ci ripetevano: “Guarda che è vero! L’hanno detto in televisione!”).

Scavando in quegli atti terroristici si trova sete di sangue, rabbia, odio. “L’odio corrode chi lo prova ben prima di raggiungere il suo bersaglio, che spesso non ne è neppure sfiorato”, è costretto ad ammettere Leone. Quindi, alla fine, la morte ripaga se stessa, oppure no? Cosa distingue la giustizia dalla vendetta?

Ascoli in un lager “aveva smarrito la sua innocenza”, sua madre e le sue sorelle, “spazzate dal vento come foglie d’autunno quando negli occhi, negli anni, avevano la primavera”. Come si può accettare? Come si sopravvive? Probabilmente passando attraverso altri dolori, altre perdite, concedendosi il lusso di un amico, guardando di nuovo negli occhi una donna. Semplicemente, continuando a vivere.

Ringrazio Leggere:tutti e Giulia Ciarapica per avermi coinvolta nella promozione di questo libro, dandomi la possibilità di leggerlo in anteprima. Vi consiglio di fare un salto in libreria, nella settimana dal 16 al 22 ottobre, fare un giro tra le novità e inserire nei vostri acquisti anche “La notte della rabbia“.

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