“Il respiro delle anime” di Gigi Paoli: una verità più soffocante del caldo

Ho trovato una continuità e allo stesso tempo una evoluzione molto interessante nel secondo libro di Gigi Paoli, “Il respiro delle anime” (Giunti). Che dirvi? L’autore si conferma uno scrittore che va decisamente letto e attenzionato, che ha saputo fare meglio del suo esordio (me l’avevano detto, ma io sono come San Tommaso…) e al quale adesso tocca continuare a scrivere. Non è che pensa di liberarsi di noi lettori così facilmente, vero?

TRAMA – È una torrida mattinata di luglio, le scuole sono ormai chiuse e sulle strade semideserte di Firenze e dintorni è calato un silenzio irreale, ma Carlo Alberto Marchi, tenace cronista e instancabile padre-single, continua inesorabilmente a svegliarsi alle sette e dieci. Non resta che mettersi in viaggio verso ”Gotham City”, l’avveniristico Palazzo di Giustizia nella periferia della città – nonché uno dei dieci edifici più brutti del mondo secondo svariate classifiche – e andare a caccia di notizie sull’allarmante ondata di morti per overdose che negli ultimi mesi ha colpito la città. Un’inchiesta con cui il direttore del ”Nuovo Giornale” sta marcando stretti il reporter e il suo collega, ”l’Artista”, che con la loro tendenza all’insubordinazione non godono certo delle sue simpatie… Ma a scombinare l’agenda di Marchi arriva una notizia che gli fa subito drizzare le antenne: nella notte, a pochi passi da Gotham, un ciclista è stato ucciso da un’auto pirata scomparsa nel nulla. Un banale incidente? Solo all’apparenza. Perché se si aggiunge che la vittima era il dirigente americano di una nota azienda farmaceutica, e che solo pochi giorni prima era rimasto coinvolto in una retata in un ambiguo locale del centro, il caso si fa piuttosto interessante. Molte e intricate sono le piste che si aprono davanti alle forze dell’ordine e a chiunque abbia voglia di vederci chiaro: una lugubre villa dalle finestre murate, un misterioso iPhone placcato d’oro, un barbone che forse dice la verità, un pericoloso boss della malavita… Marchi si troverà alle prese con l’inchiesta più complessa, torbida e inquietante della sua carriera.

Se nel primo libro di Gigi Paoli,Il rumore della pioggia, non faceva che piovere, appunto, ne “Il respiro delle anime” si boccheggia per il caldo. Ritroviamo il giornalista Carlo Alberto Marchi, sempre alla ricerca di notizie, soprattutto dentro il Palazzo di Giustizia di Firenze, dato che si occupa di giudiziaria. Non è quasi mai semplice far parlare pm, poliziotti o magistrati, anche se sono “amici”; così come non sempre può scrivere quello che viene a sapere, o intuisce mettendo insieme i pezzi. Perché alcune cose, è decisamente meglio non metterle per iscritto, a disposizione di tutti.

In questo secondo romanzo, però, si spinge un po’ più in là con le sue ricerche, rispetto alla sua prima inchiesta, ed è lui stesso ad accorgersene: “Essere curiosi va bene, ma a questo punto dovevo fermarmi per non creare casini. E non finire il stesso nei casini”. Diciamo che Carlo sarà molto determinante nella ricostruzione dei fatti, e poverino, si beccherà a malapena un grazie. O forse, nemmeno quello.

Torna anche il rapporto tormentato con la figlia di undici anni, Donata, abbandonata dalla madre e in quella fase in cui non si è bambini ma nemmeno ragazzi. Quella fase in cui la simpatia si taglia a fette, ma ogni tanto regala momenti molto dolci e frasi che scaldano il cuore prima di mettersi a dormire. Quella fase in cui “voglio il telefono perché tutte le mie amiche ce l’hanno” e il padre iperprotettivo le vorrebbe installare qualsiasi tipo di App per tenerla sotto controllo. Le parti che riguardano il loro rapporto sono senza dubbio le più divertenti.

Quella ragazzina mi avrebbe dato delle soddisfazioni in futuro. Nella sua fulgida carriera a Guantanamo, come responsabile della sezione torture psicologiche.

Ne “Il respiro delle anime”, c’è una chiara evoluzione del protagonista. Carlo ogni tanto sembra dimenticarsi di essere un uomo, troppo impegnato a fare il “giornalista” o il “padre”. Anche in questo romanzo si tormenta per il tempo passato lontano dalla figlia, però adesso vorrebbe provare anche a essere un po’ più “egoista”, passatemi il termine, e pensare anche a se stesso. Del resto, come si fa a prendersi cura di qualcun altro, se prima non si dedicano delle attenzioni alle proprie esigenze?

Facevo il giornalista, sì. Facevo il babbo, anche e soprattutto. Ma il tempo che mi restava per fare Carlo Alberto Marchi era davvero poco, pochissimo. E forse un giorno l’avrei rimpianto.

Passando invece alla trama, al di là del giallo vero e proprio, mi viene un solo aggettivo: agghiacciante. Per certi versi, e anche per specifiche considerazioni, mi ha richiamato “Il maestro delle ombre” di Donato Carrisi. Non posso addentrarmi nel dirvi in cosa perché rischio di spoilerare troppo, ma magari chi ha letto entrambi ha capito a cosa mi riferisco.

Confesso che tutta la seconda parte del romanzo mi ha richiamato alla memoria le discussioni in aula all’università durante le lezioni di Bioetica su quel confine sempre più labile e incerto tra bene e male, tra giusto e sbagliato, tra scienza e fantascienza. E allo stesso tempo ho iniziato a riflettere su quante verità ci sono negate, sul fatto che sappiamo solo quello che vogliono farci sapere, e sull’informazione in generale. Ci sarebbe da perderci la testa con ragionamenti di questo tipo, e Paoli è molto in gamba nel lasciarci tanti piccoli spunti da far propri.

Anche ne “Il respiro delle anime” troviamo una descrizione unica di Firenze, molto lontana da quella turistica a cui siamo abituati: “Firenze non era mai stata la città della luce. Era la città delle ombre, dei doppifondi, degli specchi. Firenze era un mistero irrisolto”. E ancora, un passaggio che ho trovato davvero significativo: “I buoni, a Firenze, non si chiamavano buoni, si chiamavano bischeri. Che voleva dire sciocchi, stolti. E non era un complimento. La bontà, a Firenze, non era una cosa di cui vantarsi, un complimento da pagare. Era un debito da pagare”.

L’unica pecca che ho riscontrato in questo romanzo sono alcune ripetizioni. Forse io qualche frase l’avrei tolta, si torna un po’ troppo spesso su alcune cose già dette (come l’odio reciproco con il direttore, per fare un esempio). Un’inezia, è chiaro, però mi sembrava corretto segnalarlo, specie perché un lettore attento queste cose le nota, eccome.

Ad ogni modo, è stato bello ritrovare i personaggi di Paoli e conoscerne di nuovi, spero davvero che l’autore stia già lavorando al terzo libro!

P. S.: Una delle prime cose che ho fatto iniziando a leggere il libro è stata cercare in rete foto del Palazzo di Giustizia di Firenze, “uno dei dieci palazzi più brutti del mondo secondo svariate classifiche” ma “bellissimo” per Carlo Alberto Marchi che lo considera la sua “Gotham City personale”. Io non me ne intendo, posso dirvi che più che brutto mi sembra “strano”. Sgarbi sul suo profilo Facebook ha scritto: “Il nuovo Palazzo di Giustizia di Firenze è un luogo di perversione sessuale, di una bruttezza sordida”. Quindi Carlo si beccherebbe della “capra” ma, sono certa, con il sorriso stampato in faccia (e magari una brutta risposta tra i denti!).

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