“Qualcosa di giallo” di Nicoletta Bianconi: una lettura davvero piacevole

Ho passato un paio d’ore in piacevole compagnia di “Qualcosa di giallo” di Nicoletta Bianconi (Sempremai), un flusso di pensieri che mi ha riportata a Bologna, a riflettere sulla scrittura, a ricordarmi di quando mia nonna riusciva con le mani a staccare un pezzo di filo per imbastire (che è uno di quelli così duri che nemmeno Chuck Norris ce l’avrebbe fatta), lasciandomi il sorriso sulle labbra. 

TRAMA – Nicoletta sono anni che cerca di scrivere qualcosa di bello, e di cose ne avrebbe, solo che scrivere richiede impegno, come le direbbe sua nonna: «Mettiti lì e scrivi invece di perdere del tempo. Vedi? Se io devo finire questo vestito per domani, io mi metto qui e lo faccio, mi metto qui e basta, a costo di star su tutta notte». E in più, Nicoletta, avrebbe anche una storia già in mente, una specie di giallo, in cui la protagonista, che poi sarebbe anche la vittima, si chiama Luana, ed è l’ex fidanzata di un rappresentante di moquette, Franco, che è anche l’assassino, e fa parte di un gruppo musicale che si chiama i Passatelli. Solo che quando Nicoletta racconta questa storia a Nicola, il suo fidanzato, lui le dice che i personaggi non funzionano, che Luana prima sembra una stronza poi ha tutti pensieri poetici, e così non può andare. E allora il romanzo di Nicoletta si blocca, ma anche il rapporto con Nicola sembra vacillare, e comincia un periodo in cui loro si sentono un po’ distanti. O magari no, non sono distanti, ma si fanno del male, che è un modo, forse, per stare vicini.

È un fiume in piena di ricordi, emozioni, sogni, paure, quello racchiuso in “Qualcosa di giallo“. È la storia di Nicoletta che vorrebbe scrivere questo giallo, vorrebbe farlo con il fidanzato Nicola ma lui un po’ è scostante, un po’ ha idee diverse e finisce per ammalarsi di bricolage.

E mentre pensa al suo rappresentate di moquette che uccide la fidanzata, ma non sa come, non sa quando, forse il perché sì ma magari non è andata proprio come immagina, si lascia distrarre.

Sì, sua nonna le avrebbe detto di mettersi alla scrivania a scrivere ma lei vaga con i pensieri, regalandoci momenti della sua vita, diapositive piene di emozioni, racchiuse in capitoli brevi, che contengono molto più delle parole da cui sono formati.

Episodi divertenti, alcuni bizzarri, altri marcati da una profonda malinconia per una città che si trasforma e che si stenta a riconoscere, per la quale vorrebbe lottare, gridando a una cassiera, ma finendo per rimanere in silenzio, abbattuta dall’impotenza contro lo scorrere del tempo.

Però Nicoletta non sembra arrendersi, e nonostante leggere buoni libri la faccia ricadere nel tunnel del “che senso ha scrivere se non sarò mai così brava”, lei ci prova, vuole farlo. E per fermarlo quel tempo, o forse per tramandarlo, vuole farlo nella sua “lingua madre”, quel dialetto che hanno provato a cancellarle a scuola con la matita rossa e al quale adesso è più legata che mai. 

Non solo come scrittrice ma anche come persona, pronta a riscoprire le sue radici, i suoi legami più autentici, una parte di sé. 

In un capitolo in particolare non ho potuto non ridere pensando a quella volta che, nei miei anni di studi a Bologna, venne l’idraulico a casa e mi chiese: “Dove ce l’ha il rusco?”. Io, nella totale mancanza di comprensione, gli portai la cassetta degli attrezzi, convinta che volesse un qualche tipo particolare di cacciavite. Cercava l’immondizia.

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