“Lontano dagli occhi” di Paolo Di Paolo: la storia di un inizio

“Lontano dagli occhi” di Paolo di Paolo (Feltrinelli) è un libro coraggioso, perché indaga una ferita aperta senza retorica e finte illusioni.

TRAMA – Tre storie diverse, la stessa città – Roma, all’inizio degli anni ottanta – e lo stesso destino: smettere di essere soltanto figli, diventare genitori. Eppure Luciana, Valentina, Cecilia non sono certe di volerlo, si sentono fragili, insofferenti. Così come sono confusi, distanti, presi dai loro sogni i padri. Si può tornare indietro, fare finta di niente, rinunciare a un evento che si impone con prepotenza assoluta? Luciana lavora in un giornale che sta per chiudere. Corre, è sempre in ritardo, l’uomo che ama è lontano, lei lo chiama l’Irlandese per via dei capelli rossi. Valentina ha diciassette anni, va alle superiori ed è convinta che da grande farà la psicologa. Appena si è accorta di essere incinta, ha smesso di parlare con Ermes, il ragazzo con cui è stata per qualche mese e che adesso fa l’indifferente, ma forse è solo una maschera. Cecilia vive fra una casa occupata e la strada, porta un caschetto rosa e tiene al guinzaglio un cane. Una sera torna da Gaetano, alla tavola calda in cui lavora: non vuole nulla da lui, se non un ultimo favore. A osservarli c’è lo sguardo partecipe di un io che li segue nel tempo cruciale della trasformazione. Un giro di pochi mesi, una primavera che diventa estate. Tra bandiere che sventolano festose, manifesti elettorali che sbiadiscono al sole e volantini che parlano di una ragazza scomparsa, le speranze italiane somigliano a inganni. Poi ecco che una nuova vita arriva e qualcosa si svela.

Con attenzione e delicatezza, Paolo Di Paolo in “Lontano dagli occhi” delinea personaggi che assomigliano molto a persone in carne e ossa: confusi, complicati, irrequieti e, a volte, crudeli.

La lettura scorre veloce, ma è interessante tornare, a romanzo concluso, su alcuni passaggi per scoprire la cura e la consapevolezza che stanno dietro a ogni dettaglio, a ogni scelta lessicale.

Non è il libro adatto a chi cerca certezze (avanza ipotesi e immagina molto, senza scegliere una versione definitiva), ma è perfetto per chi ama inventare storie e fantasticare sugli sconosciuti che incrocia per strada.

“Lontano dagli occhi” è, prima di tutto, la storia di un inizio. È la genesi di una vita che, appena iniziata, cambia subito binario, treno e destinazione. Di solito il tragitto che compie il neonato al momento del parto, dal ventre alle braccia della madre, è breve. Di solito.

Per alcuni invece è un viaggio più lungo, che dura mesi e, alla fine, le braccia che li accolgono non appartengono alla stessa donna che li ha partoriti.

Illustrazione di Mira Le Mot
Illustrazione di Mira Le Mot

È il caso del protagonista di “Lontano dagli occhi”, che si ritaglia un posto “nell’angolo in basso della tela”, riservandosi il finale della storia, un romanzo nel romanzo. La sua è una vita che si articola in due tempi: il primo, che dura nove mesi e un giorno, si svolge vicino a chi l’ha generato, e il secondo, molto più lungo, lontano dagli occhi (forse non dal cuore) dei genitori biologici, ma vicino a chi l’ha accolto e ha scelto di vivergli accanto.

Negli anni, questa vita, che da piccola si sarà fatta grande, cercherà di colmare con le parole il vuoto del primo tempo, il limbo in cui ha sostato prima di cominciare la “Vita 2”.

Perché “le parole fanno esistere” e possono immaginare e raccontare ciò che ci ha preceduti ed è impossibile conoscere. E se tutti si abbandonano all’esercizio narrativo d’immaginare i genitori quando erano solo figli (suona in sottofondo “In bianco e nero” di Carmen Consoli), un figlio adottato lo fa con un’urgenza diversa. Perché “i testimoni delle origini risultano irreperibili” e “di un genitore e un figlio, messi vicini, si dice che si somiglino, ma se non hai sotto gli occhi l’una delle due parti è impossibile dedurre la mancante. Allora te la inventi”.

Così nascono le storie di Luciana, Valentina e Cecilia, tre donne incinte nello stesso momento, nella primavera che diventa estate del 1983, a Roma. Attraverso tre personaggi, l’autore scandaglia le sfumature che il senso di inadeguatezza, d’impreparazione e di solitudine possono proiettare su una donna che da figlia diventa madre e che, a differenza del padre, deve fare i conti con una metamorfosi prima di tutto fisica.

“Un uomo che sta per diventare padre non lo riconosci da niente”, può sottrarsi alle responsabilità scappando o rendendosi irreperibile (sono ancora gli anni Ottanta, con i telefoni fissi e le cabine a gettoni). L’Irlandese, Ermes e Gaetano, i tre uomini del racconto, con gradi diversi di consapevolezza, non sono pronti.

Forse perché non sono ancora chi vorrebbero diventare e un figlio obbliga a una resa dei conti, un bilancio prematuro, un confronto a cui non sono preparati. Perché, come canta Motta, “la fine dei vent’anni è un po’ come essere in ritardo, non devi sbagliare strada, non farti del male, e trovare parcheggio”.

I personaggi di “Lontano dagli occhi” sono confusi, in ritardo, si muovono in continuazione, errano. Lo sfondo è un’Italia appena uscita dal terrore degli anni di piombo, che si è rifatta il trucco in fretta e male, tanto che spesso il cerone cola, lasciando intravedere squarci d’incertezza, di paura e di mistero.

Gli avvenimenti storici, che l’autore ricostruisce in modo attento e preciso, s’intrecciano alle storie dei protagonisti, entrano in campo e s’annodano al destino dei singoli, lo indirizzano, lo deviano. Ci sono i festeggiamenti per i quarant’anni della carriera politica di Andreotti, c’è la scomparsa di Manuela Orlandi, c’è la Roma che vince lo scudetto, c’è la pubblicazione di “Palomar” di Calvino.

Gli eventi si allineano sull’asse del tempo, intersecandosi al groviglio tracciato dagli spostamenti dei personaggi. Il risultato è una dimensione sospesa, che avanza con il pilota automatico e aspetta qualcosa che tarda ad arrivare.

Dovrebbe essere l’attesa di un inizio, ma assomiglia più a una fine.

Ha in sottofondo “Tropicana”, ma suona come “La fine del mondo” di Anastasio, dove l’anima è sintetica, la clessidra orizzontale e in giro si vedono solo facce spente.

Perché “Lontano dagli occhi” racconta un inizio che finisce subito, per poi ricominciare e diventare altro. E questo altro cercherà di recuperare i frammenti, seguire le tracce a disposizione (le lentiggini, la fronte alta, gli occhi piccoli, l’umore nero) per ricostruire con le parole ciò che non è più e che forse non è mai stato.

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