“Giovanissimi” di Alessio Forgione: è stata dura separarsi da Marocco

Capisci che un romanzo ti è entrato nel cuore quando fai fatica a lasciarlo andare. Quando vorresti sapere se il protagonista starà bene, quando ti manca e ritorni indietro con le pagine per non separartene. Non ancora. Ecco cosa mi è successo con “Giovanissimi” di Alessio Forgione (NNEditore).

TRAMA – Marocco ha quattordici anni e vive con il padre a Soccavo, un quartiere di Napoli. La madre li ha abbandonati qualche anno prima, senza dare più notizie di sé, e lui vive quell’assenza come una ferita aperta, un dolore sordo che non dà pace. Frequenta il liceo con pessimi risultati e le sue giornate ruotano attorno agli allenamenti e alle trasferte: insieme a Gioiello, Fusco e Petrone è infatti una giovane promessa del calcio, ma nemmeno le vittorie sul campo riescono a placare la rabbia e il senso di vuoto che prova dentro. Finché non accadono due cose: l’arrivo di Serena, che gli porta un amore acerbo e magnifico, e la proposta di Lunno, il suo amico più caro, che mette in discussione tutte le sue certezze.

Non capiva questo fatto che il voler bene a qualcuno è una sfortuna, perché ci si mette nelle sue mani e si diventa come nuvole: piccole forme delicate e semplici da distruggere.

Parlarvi di “Giovanissimi” di Alessio Forgione non è facile. Ho letto questo romanzo quasi in apnea, arrivando alla fine praticamente in debito di ossigeno.

L’ho letto senza mai mollarlo, in costante apprensione: nelle parole di Forgione c’è una tensione continua e sottile che mi ha spinto a divorare le pagine, ad andare avanti convinta che sarebbe successo qualcosa. Che sarebbe stato inevitabile. E, alla fine, ne avrei volute ancora di quelle pagine.

In “Giovanissimi” si racconta circa un anno della vita di Marocco, un ragazzo di quattordici anni che avrebbe un sacco di cose da raccontare se fosse capace di tirare fuori le parole. Di pensieri ne ha, tanti, ma il più delle volte vanno a sbattere contro le sue labbra serrate.

D’altronde, che ci sarebbe da dire? La vita in un quartiere periferico di Napoli è quella che è, c’è il calcio che potrebbe essere una speranza ma che pare solo l’anticamera dell’ennesima delusione, e la scuola che è solo una perdita di tempo per quanto riguarda lo studio (specie il latino).

Eppure, quel piccolo mondo di Marocco raccoglie molto più di questo. Ci sono i suoi interessi, i suoi Dylan Dog (come lo capisco), gli articoli sui fenomeni paranormali.

Ci sono i suoi amici, il fumo davanti alla chiesa.

Il Mister e le partite da giocare facendo attenzione.

C’è il padre.

Non c’è la madre.

E presto capisci che è proprio lì il punto. Quell’assenza che significa un silenzio asfissiante in una casa che ha perso i colori e la gioia, frammenti di telefonate rubate, un padre incapace di stabilire un contatto, sebbene ci stia provando.

Le scene descritte in “Giovanissimi” si alternano in una serrata ripetitività, che piano piano si allarga, includendo la violenza, distante ma prossima; l’attesa del proprio turno (non “se” ma “quando”); i conti alla rovescia che non portano a esplosioni; la comprensione di un sentimento di cui non si aveva nemmeno sentore.

E poi pensai che più di tutto mi dispiaceva che non sapevo cosa fosse l’amore.

Le ultime pagine saranno dolorose e bellissime. Leggere di Marocco mentre capisce cos’è l’amore e il modo in cui lo esterna a Serena sono stati un dono. Sapere che la felicità a volte può scapparti via di mano, un colpo difficile da digerire. Eppure era nell’aria, ineluttabile.

Alla fine, Alessio Forgione ci chiede una cosa difficilissima: dire addio a Marco. Sì, perché alla fine ti dimentichi di quel soprannome e scopri questo ragazzo per chi è veramente e capisci quanto puoi imparare da uno come lui. Quindi, semplicemente, grazie.

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