“Portami dove sei nata” di Roberta Scorranese: un romanzo stroardinario

“Portami dove sei nata” di Roberta Scorranese (Bompiani) è stata una vera scoperta: un romanzo straordinario che mi ha emozionata molto.

TRAMA – La campagna, le sue stagioni. Un grande clan familiare: uomini di poche parole, donne custodi di sapienze e sapori, e un segreto taciuto per anni. Mille racconti, tra memoria e magia: la bomba di Zì ’Ntonio, i soldati tedeschi davanti a Pasqualino neonato la notte di Natale, le ragazze con le guance arrossate durante lo svestimento delle pannocchie, il vitello di Cesarino a cui togliere l’ammidia, il destino di Celestina e del suo bimbo “sbagliato”. Roberta Scorranese parte dalle radici per raccontare il suo Abruzzo e tesse una tela che unisce passato e presente: perché il terremoto non cancelli la memoria, perché nemmeno il futuro è pensabile se non si guarda indietro. Così assistiamo al miracolo della Madonna cinquecentesca di terracotta, perduta, ritrovata, frantumata dal sisma e poi rinata grazie alla tenacia degli abitanti di un borgo; conosciamo Peppe e Rosa, che si giocano tutto ai tavoli verdi; scopriamo che c’è chi alle ipnotiche serpi di Cocullo deve la vita; e ci sembra difficile non credere a san Gabriele, che sa perdonare il “peccato grosso” finalmente svelato. Questo libro è una saga familiare narrata con humour e partecipazione. È un reportage su una terra fiera, che nonostante tutto conserva la fiducia nella possibilità dei miracoli. Ma soprattutto è la lunga lettera d’amore di una donna che fa ritorno nella terra che ha lasciato da giovane e, cercando le parole per raccontarla, ritrova se stessa e il senso profondo dei giorni.

Mischiando vite vere e racconto Roberta Scorranese ci porta davvero dove è nata, in quell’Abbruzzo popolato da fantasmi che vivono nei ricordi e di vivi che sembrano essere stati dimenticati.

Il romanzo scorre su due piani temporali che finiscono per amalgamarsi: il passato si mescola al presente; gli episodi narrati si abbottonano, trovando un filo che li unisce, alle cronache di oggi, alle tragedie che fanno notizia per un po’ e che poi non trovano spazio nemmeno nei trafiletti.

Roberta Scorranese tutto questo lo fa con una scrittura evocativa, piena, agrodolce, parlando con la distanza di giornalista, e il legame di figlia e nipote. Uno stile che mi ha conquistata sin dalle prime battute di quel prologo dei fantasmi che ho riletto dopo averli conosciuti e amati, che mi ha emozionata attraverso ricordi lontani e altri dolorosamente vicini.

Da una parte, infatti, ci sono i racconti degli aquilani che hanno avuto addosso per dieci anni l’odore della polvere dei calcinacci, degli abitanti di quei centri ancora pieni di macerie dove i giornali li porta la mattina un’ambulanza, o di chi quel giorno che il Gran Sasso crollò travolgendo l’Hotel Rigopiano scoprì per la prima volta “quanto pesa un animale vivo”.

Nel terremoto, L’Aquila perse i colori e acquisì odore. Camminavi e cercavi di riconoscere qualcosa di familiare, un negozio, un angolo di strada, un’insegna, ma nulla: c’era solo quell’odore di calcinacci. Passarono i giorni, i mesi. Sotto gli occhi di Rita, la città veniva lentamente seppellita: seppellita dalle macerie nel suo centro storico, seppellita nel ricordo dalla nuova città che cresceva lì accanto, seppellita dal silenzio che calava insieme alla notte.

Roberta Scorranese ci racconta queste storie senza recriminazioni, senza lamentele, come sarebbe sin troppo facile fare, ma facendoci scoprire luoghi dove scorre vita, dove “la tritticata”, il terremoto, non ha cancellato i ricordi, dove la dignità e il dolore camminano insieme, dove le persone si muovono continuamente tra il desiderio di ricominciare e la nostalgia per ciò che non sarà mai più.

Il terremoto fa retrocedere le cose a una stagione primitiva, appena nata. Spoglia le case dei ricordi, trasfigura i luoghi familiari e li fa diventare orizzonti estranei. “Era come se quella non fosse più casa mia,” racconta mia madre quando rievoca i giorni della tritticata. E se si arriva a non voler più vivere nella propria casa, non è per ordinaria paura delle scosse notturne, ma è per la perdita di un senso di appartenenza.

Dall’altra parte abbiamo gli abitanti di Valle, le loro dinamiche, la pummadorata, la “guerra dei fiori” tra Ginetta e Cesira che si occupavano delle decorazioni floreali in chiesa, lo svestimento delle pannocchie, i racconti di Lu Re. Ma soprattutto loro, Chiarina e Celestina. La donna ufficiale e quella de lu peccat’ gross’. Sono state loro a rubare tutta la mia attenzione, discrete e reticenti, ma forti nella loro compostezza. Intorno a loro, un concetto caro all’autrice di “Portami dove sei nata”, quello di famiglia.

Tutte e due, in fondo, erano state gli strumenti umani di un gesto fatto per la cosa più astratta del mondo ma anche la più nobile del mondo, cioè la famiglia.

La famiglia che “va protetta a tutti i costi, con gli errori e con le cadute”, che va tenuta insieme anche quando i pezzi non combaciano. Roberta Scorranese ci regala il ritratto di due donne straordinarie, alle quali si affiancano tante altre figure femminili, tratteggiate in modo incredibile, tra sorrisi e commozione. L’autrice delinea il quadro di un’epoca e di una società nella quale le donne reggevano tutti i fili, portavano sopra le spalle un peso enorme, sempre a occhi bassi, sempre senza chiedere nulla in cambio.

Gli ultimi capitoli di “Portami dove sei nata” sono stati toccanti. Non anticipo nulla, ma sono stati quelli emotivamente più coinvolgenti, nella quale l’autrice entra in scena quasi accanto ai suoi personaggi, raccontandoci anche cosa ha significato per lei questo viaggio tra i ricordi e nei luoghi della sua infanzia.

Dov’è andato tutto questo? È come se in tutte queste persone, che oggi non ci sono più ma che hanno lasciato ricordi di alta qualità narrativa, fossero vissuti tutti gli io che non sono mai diventata. 

Assolutamente consigliato!

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