“Nova” di Fabio Bacà: provo a dirvi cosa non mi ha convinta

Più che una recensione su “Nova” di Fabio Bacà (Adelphi), probabilmente sarò in grado di buttare giù pensieri sparsi e suggestioni varie. 

TRAMA – Del cervello umano, Davide sa quanto ha imparato all’università, e usa nel suo mestiere di neurochirurgo. Finora gli è bastato a neutralizzare i fastidiosi rumori di fondo e le modeste minacce della vita non elettrizzante che conduce nella Lucca suburbana: l’estremismo vegano di sua moglie, ad esempio, o l’inspiegabile atterraggio in giardino di un boomerang aborigeno in arrivo dal nulla. Ma in quei suoni familiari e sedati si nasconde una vibrazione più sinistra, che all’improvviso un pretesto qualsiasi – una discussione al semaforo, una bega di decibel con un vicino di casa – rischia di rendere insopportabile. È quello che tenta di far capire a Davide il suo nuovo, enigmatico maestro, Diego: a contare, e spesso a esplodere nel modo più feroce, è quanto del cervello, qualunque cosa sia, non si sa. O si preferisce non sapere.

Mi è piaciuto/Non è mi è piaciuto è un binomio troppo semplicistico e non saprei nemmeno quale delle due opzioni scegliere. Posso però tranquillamente ammettere che se fosse stato un altro romanzo – quindi senza l’eco che ha avuto “Nova” negli ultimi mesi – non lo avrei nemmeno finito, arrogandomi il sacrosanto diritto che mi ha concesso nientemeno che Pennac.

Credo che Fabio Bacà in questo romanzo affronti un tema molto interessante, ma che non lo faccia con particolare slancio di originalità. In tanti prima di lui si sono interrogati sulla violenza, si sono spinti verso la parte più oscura di ognuno di noi, quella che tentiamo di tenere a bada, che ci impongono di reprimere e che non è il caso di mostrare. E probabilmente lo hanno fatto con un impeto che ha avuto maggiore presa su di me. 

Le pagine di “Nova” non mi hanno lasciato nessuna emozione. Molti hanno parlato di un exploit finale, ma io avevo già largamente capito da dove sarebbe partita la scintilla. Ai miei occhi era fin troppo ovvio.  

Altri hanno mosso delle rimostranze sullo stile dell’autore, ma io posso dire che non è stato quello ad appesantirmi la lettura. L’unica cosa che mi sento di sottolineare è che probabilmente avrei preferito un registro diverso per i differenti personaggi, cosa che non sempre ho riscontrato: lo stile usato a mio avviso non ha dato ritmo o colore alla narrazione, finendo per appiattirla. 

Non ho letto altro dell’autore per potermi esprimere con maggiore cognizione sul suo stile di scrittura, ma se è la sua cifra stilistica ritengo che non possa essere biasimato o criticato per questo motivo, dato che ognuno si esprime nei modi che gli sono più congeniali. 

Tommaso l’ho trovato il personaggio più interessante e avrei voluto che gli fosse stato concesso più spazio. Lo spiraglio sulle sue emozioni è stata la parte che probabilmente ho avvertito con maggiore nitidezza. Ma quali sono le sue riflessioni sul padre? E sull’impossibilità di organizzare una grigliata in giardino con gli amici?

Le pagine su cui mi sono soffermata di più sono la 234 e la 235. Lo scrivo così per non riportare delle citazioni che potrebbero anticipare qualcosa. Ci sono delle domande che sono subito diventate mie. C’è quell’allontanamento dal particolare, nel vano tentativo di avere una visione di insieme, che il più delle volte ci dimentichiamo di compiere e che è giusto tenere a mente, prima di esprimere un giudizio, di compiere un’azione irreversibile. 

“Nova” sì o no, dunque? Ripeto, non lo so. Mi sembra inutile ribadire che quelle appena espresse sono mere impressioni personali che nulla tolgono all’autore e al successo che ha avuto (e che gli auguro di continuare ad avere), e che questo post non ha nessuna pretesa di critica o di giudizio. Negli anni ho imparato che la lettura è un fatto talmente personale e intimo che non si può dare nulla per scontato. 

Ho colmato una curiosità, e sono contenta di averlo fatto. 

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