“Il giardino di marmo” di Alex Taylor: sorprendente

Il giardino di marmo” di Alex Taylor (Edizioni Clichy) è stato un romanzo sorprendente. Per la scrittura, prima ancora che per la storia, per il reticolo di emozioni che si intrecciano nel buio. Per quello spiraglio di luce,  debolissimo o forse no, al quale non resta che aggrapparci.

TRAMA – Al centro di una storia che si avvolge in una spirale di violenza che appare inevitabile, è la figura del giovane Beam Sheetmire, figlio del generoso Clem e della dolente Derna, che dopo aver ucciso l’uomo che tentava di derubarlo senza sapere chi sia e quanto questo individuo apparso dal niente una notte sarà in realtà determinante per la sua vita, fugge precipitando verso l’abisso che il destino ha in serbo per lui, fra strani incontri e ancor più strani personaggi: un camionista insolitamente elegante, il gestore di un bordello senza più le braccia, un vecchio e malandato raccoglitore di ginseng che si nasconde in un cimitero e che non avendo più niente da chiedere alla vita decide di salvare la vita agli altri. Ma da chi sta scappando veramente Beam? Dalla giustizia, che ha il volto solcato dello sceriffo Elvis? O piuttosto da Loat Duncan, temuto assassino, che si rivela essere il padre dell’uomo ucciso da Beam e che nasconde uno sconvolgente segreto anche sul passato del ragazzo in fuga? Alla fine a dare un possibile senso a questa discesa verso il male e verso il sangue saranno due donne, due madri, e a poco servirà augurare il meglio a un gheppio che si invola nel cielo grigio, perché mentre lo pensiamo l’uccello è già volato via.

Credi che tutti i guai che succedono in certi piccoli posti semplicemente scompaiano una volta finiti?

Pensando a “Il giardino di marmo” mi viene in mente il disegno di una spirale. Si parte dal centro, da un punto, che in questo caso è un omicidio. Una vittima, un carnefice.

Poi il disegno si allarga, avvolge su se stesso i primi elementi della storia e si espande, coinvolgendo altri personaggi. I genitori della vittima e del carnefice. Gli abitanti del posto, il proprietario di un bar, le forze dell’ordine. Poi si spinge sempre più in là, fino agli estranei di passaggio, che in realtà sono messi lì per rimanere, per scombinare le carte, per muovere le altre pedine.

E in questa spirale il lettore rimane come imbrigliato, incapace di distogliere lo sguardo ma senza saper bene dove – o chi – vedere, senza sapere se continuare, accecato da morbosa curiosità; o se tornare indietro, trafitto da inevitabile paura.

La storia coinvolge in vario modo ognuno dei protagonisti, si iniziano a intuire le relazioni, i risentimenti, le pretese, gli obblighi. Si scava, anche se non serve tanto sforzo per guardare cosa c’è sotto: sentimenti primordiali, basilari, che innestano una serie di eventi di brutale forza e intensità, corrosi da un luogo che è deleterio per l’anima, arido, acido.

Ci sono personaggi ne “Il giardino di marmo” che smettono di essere bidimensionali nel momento in cui aprono bocca. Le loro parole gli forniscono quella consistenza che gli permette di uscire dalle pagine, e il lettore ha l’impressione di sentirli vicino, avvertendone la presenza, l’odore, il risentimento, lo sgomento, la paura, il dolore.

A colpirmi per primo è stato Pete: il capitolo dieci l’ho letto e riletto, facendo molte orecchie alle pagine:

Ci sono persone da queste parti che neanche si accorgono di tutti i guai che hanno proprio sotto il naso. La sera si siedono sul portico e ascoltano gli uccelli e pensano che tutto sia tranquillo. Poi ci sono gli altri. Quelli a cui le persone sedute in veranda non amano pensare. Quelli che si alzano e vanno in giro con il buio per tutta la vita finché non diventano il buio. 

Andando avanti nella lettura sono arrivati altri momenti di dialogo, di confronto e anche Elvis mi ha strappato il cuore, specie sul finale. Ci sono pagine di un lirismo straordinario che meritano tutta l’attenzione del lettore, alla fine del romanzo.

Un passaggio – il finale, appunto – in cui tutto smette di essere esibito, come è stato fino a quel momento, e le domande rimangono a fior di labbra, serrate, inutili davanti a quell’ultimo sguardo che ci viene concesso, facendoci diventare pensierosi allo stesso modo di chi ce lo sta raccontando.

Feriti, umiliati, ma vivi.

Un thriller con sfumature western, un romanzo dai dialoghi potenti, così come lo è l’ambientazione. “Il giardino di marmo” rimesta tra le pieghe più recondite dell’animo umano senza paura di essere brutale, senza mai smettere di essere schietto, sfacciatamente onesto.

Un romanzo che non può essere davvero raccontato, va solamente letto.

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