“Gli anni invisibili” di Rodrigo Hasbún: asciutto e spietato

“Gli anni invisibili” di Rodrigo Hasbún (SUR) è un romanzo breve, che si legge tutto d’un fiato, stretti nella morsa che l’autore ha pensato per i suoi lettori. Una spirale discendente dalla quale si fa fatica a uscire. 

TRAMA – Dopo anni trascorsi senza vedersi né sentirsi, due vecchi amici si ritrovano decisi ad aprire il vaso di Pandora del loro passato in comune. Così, mentre in un bar di Houston bevono un bicchiere dopo l’altro, la mente torna in Bolivia, alla fine del liceo e al tragico marzo di ventun anni prima, fatto di innamoramenti tumultuosi, genitori assenti, sogni e incertezze che in un paio di settimane hanno sconvolto per sempre le loro vite. Li vediamo, ragazzini – tra canzoni urlate a squarciagola, confidenze sussurrate e bevute fuorimisura –, entrare poco a poco in un vortice di eccitazione e violenza che culminerà in una notte impietosa, dalla quale nessuno saprà salvarsi.

Credevo che scrivendo di quel periodo me ne sarei liberato, che avrei alleggerito il peso di quegli anni invisibili, ma spesso sento che è successo proprio il contrario.

Chi sono gli adulti che si incontrano vent’anni dopo i fatti di quel marzo lontano? Quanta strada hanno dovuto percorrere per lasciarsi alle spalle la Bolivia, ammesso che abbiano potuto farlo per davvero?

Non sappiamo nemmeno i loro veri nomi, solo quelli usati nella finzione narrativa, nel romanzo che uno dei due sta cercando di scrivere per scacciare via i fantasmi del passato. 

Ventun anni o cento o mille, non fa differenza: tutto ciò che entra a far parte del passato diventa irreale, una menzogna che alcuni a volte condividono. Le persone che eravamo laggiù somigliano poco alle persone che siamo qui oggi. Le persone che eravamo laggiù non avrebbero mai immaginato le persone che siamo qui oggi.

Ma se, appunto, di finzione si tratta, di menzogna che diventa distorsione, non sappiamo nemmeno quanto si discosti dalla realtà, quanto sia amplificata. 

Anche perché, quando si è così giovani, pieni di vita e di futuro davanti, non sono già di per sé le emozioni amplificate quasi fino a scoppiare? A sfuggire al controllo? Non è tutto più vivido, più grande? Più doloroso?

Ne “Gli anni invisibili” quello che è successo allora si mescola a ciò che si racconta nel presente. Punto focale, sul quale l’autore si sofferma, è che quello che siamo oggi è inevitabilmente una conseguenza di quello che abbiamo vissuto, provato, sentito, nel nostro passato. Possiamo tentare di togliere delle macchie ma non le cicatrici che segnano la nostra pelle. 

Segni che non vanno via, ed è per questo motivo che “quella che nel libro chiamo Andrea” non si toglie mai gli occhiali da sole. Domande che fanno rimanere svegli, ed è per questo che l’uomo che nel libro viene chiamato Ladislao non fa altro che provare a distanziarsene, sia a livello fisico che emotivo, convinto che metterle nero su bianco possa bastare. 

Mi hanno colpito in particolare alcune pagine de “Gli anni invisibili“, verso la fine, quando quello che viene chiamato Ladislao individua un momento preciso, un punto di svolta, da cui partono tutti gli interrogativi. Gli “e se” che tanto logorano, non cambiando mai il risultato. Quel ragazzo era ignaro di tutto quello che sarebbe successo, convinto che la vita avrebbe imboccato una precisa strada.

Quanti di noi possono dire di aver realizzato ciò che sognavano da adolescenti? Che il percorso che eravamo convinti di percorrere, sia stato lo stesso su cui poi si sono davvero mossi i nostri passi?

Forse non è nemmeno giusto individuare un punto di svolta, uno soltanto, ma di certo ognuno di noi avrà un momento a cui tornare con la mente per ripensare a come sono andate le cose da quell’istante in avanti. 

“Gli anni invisibili” di Rodrigo Hasbún è un romanzo asciutto e spietato, che non fa sconti ma che, alla fine, concede uno spiraglio di speranza. Perché il momento per ricominciare non si sa mai quando arriverà, ma conviene non farselo scappare. 

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