“Il sogno della macchina da cucire” di Bianca Pitzorno: un libro che scalda il cuore

Il sogno della macchina da cucire” di Bianca Pitzorno (Bompiani) ha un unico, enorme difetto: è troppo corto. Questa volta sono stata brava, me lo sono gustato in tutta la sua bellezza in due giorni, ma una volta terminato il primo pensiero è stato: “Ne avrei letto volentieri almeno altre 100 pagine”.

TRAMA – C’è stato un tempo in cui non esistevano le boutique di prêt-à-porter e tantomeno le grandi catene di moda a basso prezzo, e ogni famiglia che ne avesse la possibilità faceva cucire abiti e biancheria da una sarta: a lei era spesso dedicata una stanza della casa, nella quale si prendevano misure, si imbastivano orli, si disegnavano modelli ma soprattutto – nel silenzio del cucito – si sussurravano segreti e speranze. A narrarci la storia di questo romanzo è proprio una sartina a giornata nata a fine Ottocento, una ragazza di umilissime origini che apprende da sola a leggere e ama le opere di Puccini ma più di tutto sogna di avere una macchina da cucire: prodigiosa invenzione capace di garantire l’autonomia economica a chi la possiede, lucente simbolo di progresso e libertà. Cucendo, la sartina ascolta le storie di chi la circonda e impara a conoscere donne molto diverse: la marchesina Ester, che va a cavallo e studia la meccanica e il greco antico; miss Lily Rose, giornalista americana che nel corsetto nasconde segreti; le sorelle Provera con i loro scandalosi tessuti parigini; donna Licinia Delsorbo, centenaria decisa a tutto per difendere la purezza del suo sangue; Assuntina, la bimba selvatica… Pur in questa società rigidamente divisa per classe e censo, anche per la sartina giungerà il momento di uscire dall’ombra e farsi strada nel mondo, con la sola forza dell’intelligenza e delle sue sapienti mani.

Chi mi conosce sa che è stata Bianca Pitzorno a farmi amare la lettura. Suoi sono i primi libri che ho letto: “Ascolta il mio cuore”, “Polisenna del porcello”, “Dame, mercanti e cavalieri”, “Parlare a vanvera”, “Diana, Cupido e il commendatore”, li ricordo con grande gioia.

Ritrovarla adesso è stato davvero un dono. Molto intimo e personale sia per quanto appena detto, sia perché attraverso le pagine di questo romanzo ho avuto modo di ricordare mia nonna. Lei indossava sempre un ditale e aveva una scatola piena di bottoni con i quali amavo giocare quando ero a casa sua, incurante delle storie che avrebbero potuto raccontare. La ricordo mentre era concentrata a infilare il filo nell’ago, o quando con estrema perizia usava la sua macchina da cucire a pedale, con lo sportello pieno delle mie figurine.

Quando la protagonista de “Il sogno della macchina da cucire” nei primi racconti parla di sua nonna, non vi nascondo che mi sono commossa. Ma al di là di quelle che sono state emozioni del tutto personali, posso dirvi che questo romanzo scalda davvero il cuore.

Attraverso i racconti di questa sartina che vive tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, la Pitzorno non solo scava in profondità nei suoi sentimenti, facendocela sentire sempre meno distante, pagina dopo pagina; ma tra orli, pizzi, asole e finiture, ci fa addentrare nella società di quel tempo, narrandone virtù e storture, facendoci del tutto immergere in una realtà lontana dalla nostra che però, per certi versi, è rimasta immutata.

Allo stesso modo, le donne de “Il sogno della macchina da cucire“, nonostante la distanza temporale, le percepiamo vicine perché hanno i nostri stessi sogni, desiderano l’amore, la libertà di poter scegliere, vorrebbero essere felici e si scontrano quotidianamente con ostacoli, difficoltà, privazioni.

Volevo passeggiare sulla spiaggia contemplando l’orizzonte, come avevo visto in un quadro, raccogliendo conchiglie e sognando mentre i voli dei gabbiani rigavano il cielo. Sognando cosa? Chi? Sognare era molto pericoloso, lo sapevo, non me lo potevo permettere. E poi, già soltanto vedere il mare non era la realizzazione di un sogno?

La sartina racconta la sua storia attraverso aneddoti narrati finemente, durante i quali si alternano momenti divertenti ad altri tragici, fino a un epilogo che avrà un sapore agrodolce. Tutti i personaggi portano con sé qualcosa di unico, nel bene e nel male, e sono caratterizzati al meglio. Bastano poche descrizioni per capirne la personalità e la fisicità, pochi dettagli per inquadrarne il carattere e per suscitare nel lettore sentimenti di profonda commozione o di totale antipatia.

Allo stesso modo sono descritti con maestria gli ambienti e le situazioni, ogni scena viene raccontata in modo così vivido che il lettore rischia di perdersi in quelle parole, come se stesse vivendo all’interno di un ricordo. Negli episodi che troviamo ne “Il sogno della macchina da cucire” vengono descritte le sfumature dell’animo umano, il modo in cui gli eventi ci plasmano e modificano le nostre attitudini, la forza determinante di certi incontri, l’imprevedibilità della vita, capace di dare e di togliere, da un giorno all’altro, senza alcun preavviso.

A rendere unica la narrazione è lo stile elegante e pieno di garbo di Bianca Pitzorno che da sempre mi ha affascinata. Come ho detto all’inizio, non mi sarebbe dispiaciuto leggere ancora di questa sartina, delle sue esperienze, dei suoi incontri, delle sue scelte. Ho amato molto queste pagine, la scrittura della Pitzorno ancora una volta ha toccato le corde giuste e si è aggiudicata un pezzetto del mio cuore.

5 pensieri riguardo ““Il sogno della macchina da cucire” di Bianca Pitzorno: un libro che scalda il cuore

  • 26 Ottobre 2018 in 11:05 am
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    Lo voglio leggere. Belle le tue parole. Ciao da Lea

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  • 1 Giugno 2019 in 1:05 am
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    È delizioso, ma ha il sapore di un libro per bambine nello stile, pur narrando di cose tragiche. Particolare!

    Risposta
  • 4 Novembre 2019 in 11:31 am
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    E’ bellissimo
    sembra una favola ma racconta vita vera
    io adoro cucire e questa autrice
    monica

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  • 21 Marzo 2021 in 7:23 pm
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    Ho trovato il libro semplice nello stile, ma toccante e ricco di emozioni.
    La forza delle donne, la capacità di cambiare, di credere nella propria autonomia e nella propria voglia di mettersi in gioco, e di non sottostare a forme di conformismo mi hanno lasciato un senso di
    leggerezza e di felicità nell’animo.

    Risposta

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