BLOGTOUR “Io qui, tu là” di Mauro Zucconi: intervista all’autore

Penultima tappa del blogtour dedicato a “Io qui, tu là” il romanzo di Mauro Zucconi pubblicato da Fazi (è in libreria dal 29 marzo). Oggi scopriamo qualcosa in più sul libro dalle parole dello stesso autore, che ringrazio per la generosità con la quale si è aperto e ha risposto alle mie curiosità.

Quanto c’è di Mauro in Eugenio? Al di là della storia d’amore mi hanno colpito moltissimo le dinamiche tra lui e i suoi genitori: quanto c’è di reale in quelle?

Credo si possa dire che Eugenio esprime il mio lato per certi versi più debole e insicuro. Il suo modo di pensare è molto simile al mio, ma più sbilanciato nella direzione delle emozioni, delle paure e dei ricordi, con l’inclinazione cinica e umoristica a fare da contrappunto. Io invece sono quasi integralmente uno che ride e fa battute, inoltre penso molto poco al passato, mentre Eugenio non fa quasi altro – il romanzo stesso è un ricordo – con il risultato di esserne spesso afflitto e risultare malinconico, almeno fino a quando non incontra Viola, che rappresenta la gioia e il futuro. Per quanto riguarda il rapporto con i genitori, si può dire qualcosa di molto simile: Eugenio è più sentimentale e si appoggia continuamente a loro, specie quando gli sembra di essere un individuo alla deriva (e lo è). Io ho un rapporto più tradizionale.

Eugenio in più di un’occasione ammette di comportarsi da stupido, dicendo anche: “La paura era l’assoluta dominatrice della mia vita”. Per reagire di fronte alla paralisi di quel filosofo danese (che forse non era danese) cosa occorre?

Eugenio capisce di essere stupido, di essersi comportato da stupido e di aver rischiato di rovinarsi la vita solo a posteriori. Credo sia un tratto determinante del personaggio e del romanzo: vive per anni un’esistenza che gli sembra normale, la migliore possibile, e che invece è una palude destinato a inghiottirlo per sempre. Forse crede di meritarsela, forse ha perso ogni ambizione. Per sua fortuna nel frattempo avviene nella sua testa come una scissione da cui ha origine un secondo Eugenio, probabilmente generato dalla parte sana del suo modo di essere, quella che ci accomuna più o meno tutti e che vuole fortemente la vita e la felicità. Questo secondo Eugenio resta sommerso a lungo ma non si spegne e attende una forza liberatrice, che nel suo caso è Viola. Senza Viola Eugenio sarebbe rimasto imprigionato nella vita infelice che giorno dopo giorno si era costruito. La paura invece è un altro aspetto del suo modo di essere e ne è immediatamente consapevole, ma gli sembra più facile arrendersi e le persone di cui si è circondato non fanno nulla per convincerlo a reagire. È sempre Viola a dargli la forza per cambiare.

Nel romanzo molto spesso Eugenio, dopo averci raccontato come si sono svolte alcune discussioni, confessa che a suo avviso sarebbe stato meglio esprimersi in modo diverso. Per molti anni, invece, è rimasto in silenzio. E dire che Eugenio si guadagna da vivere con le parole… Sembra quindi che ci sia una netta distinzione tra la parola scritta e la parola detta: da cosa deriva questo blocco? (In realtà è una domanda che mi interessa in modo diretto dato che sono io la prima ad avercelo!)

La parola scritta, specialmente quella letteraria, è una forma della solitudine. Eugenio si definisce una persona che è sempre stata sola, prima solitaria e poi sola, e la scrittura è certamente un modo che ha usato per sopravvivere in questa solitudine. Certo un romanzo non ha ragion d’essere senza un lettore, quindi anche la parola scritta letteraria si rivolge a qualcuno come la parola detta, ma ciò avviene in un secondo momento, in una seconda fase di un processo articolato ed eterogeneo. La parola detta, quella del mondo reale, del quotidiano, è invece prima di tutto una forma della socialità, dell’interazione. Un’altra differenza è che un romanzo, benché in certi casi possa produrre conseguenze (anche enormi) nel mondo, non viene scritto a questo fine, la parola detta invece sì, e una persona come Eugenio, spesso bloccata dalla paura, è più portata a mordersi la lingua invece di dire ciò che andrebbe detto proprio perché teme le conseguenze delle parole. Durante la scrittura invece ha un forte – anche se mai completo – controllo non solo di ciò che può dire, ma anche di come gli altri personaggi e il mondo del romanzo può reagire. Nella realtà invece molto spesso è difficile prevedere gli effetti di ciò che si dirà e quasi impossibile arginarli. Un’altra ragione molto più ovvia della differenza tra l’una e l’altra e del motivo per cui spesso non si riesce a dire la cosa giusta al momento giusto è questa: quando si scrive si ha il tempo di riflettere, di tornare indietro, di correggere; quando si parla no, semplicemente la cosa giusta ci viene in mente dopo, anche anni dopo.

Quanto è liberatorio lo stile di scrittura che hai scelto per questo romanzo?

Il termine “liberatorio” indica bene le due possibilità che questo tipo di stile mi offriva quando ho immaginato come realizzare l’idea che avevo in mente: da un lato quella non tanto di raccontare una storia in modo lineare quanto di farla emergere attraverso i ricordi e le immagini della mente del protagonista, con tutto il complesso di sensazioni, emozioni e significati che, nella sua normalità, portava con sé; dall’altro quella di permettere al protagonista stesso di sciogliere le tensioni e i rimpianti legati alle difficoltà di una vita nella quale gli sembrava di essere quasi annegato. E il suo è proprio il racconto di una liberazione, un viaggio dalla profondità alla luce, e ho subito pensato spettasse a lui farlo. Così quando il lettore comincia a leggere si trova a tu per tu con Eugenio, che ha questo modo di parlare a metà tra il ricercato e lo scanzonato, e una chiara tendenza all’autoironia e all’esagerazione. Un’altra ragione per cui ho scelto questo stile è poi il modo in cui mi permetteva di dare ritmo e suono alle frasi, nella speranza che diventasse una qualità rilevante del romanzo, al pari della storia e dei suoi significati. Si tratta di un finto parlato o, con una definizione un po’ antitetica, di una sua simulazione letteraria.

Questa storia si sarebbe potuta scrivere se Eugenio per lavoro si fosse trasferito a Milano e Viola gli avesse scritto per la prima volta, per esempio, da Roma? La dimensione provinciale quanto è importante?

Certamente, si sarebbe potuta scrivere anche se Eugenio fosse stato a New York e Viola a Tokyo. Prima di tutto perché i due si scrivono tutti i giorni per più di un anno. Forse sarebbe stata più difficile nel 1980, senza internet, o al tempo dei piccioni viaggiatori. È più un fatto temporale che geografico. Ma anche nel 1980 avrebbero avuto speranze, magari i tempi sarebbero stati più lenti, con i piccioni lentissimi (ma più romantici). Tuttavia la caratteristica della storia è la sua capacità di resistere contro ogni ragionevole previsione. Viola legge un libro di Eugenio e senza neanche accorgersene pensa di amarlo. Un fatto che magari è anche normale. Quello che è insolito è quando si incontrano per la prima volta, cioè molti anni dopo. Nel mezzo, due intere vite, con tutti i piccoli infiniti fatti tipici delle vite umane, con ogni decisione o azione che può portarti su una strada che ti condurrà a una distanza abissale da dove eri prima. Ma questo amore, che è poco più di una sensazione o forse un’intuizione, resiste. Agli anni, alle persone, ai fatti, alle parole. Resiste e arriva dove deve arrivare quasi senza che i due lo sappiano, anche se alla fine sono proprio loro, con le loro volontà, a rompere le rispettive schiavitù e a farlo arrivare a destinazione. Ma è l’idea di una forza che li spinge irrimediabilmente l’uno verso l’altra a colpire.

Eugenio dice che in vent’anni di scrittura ha abbandonato tante storie. È successo anche a te? Ma soprattutto, ce n’è una nuova che stai scrivendo?

Sì, mi succede di continuo. Quando comincio a scrivere non so mai se arriverò al termine. A volte non comincio nemmeno, mi basta formulare l’idea e raccontarla a qualcuno per sentirmi soddisfatto. Un amico mi chiede che cosa sto scrivendo, io dico “la storia di un uomo che si compra una cittadina” (in realtà è un racconto di Barthelme) e l’amico dice “Bello!”, e così mi sento soddisfatto e comincio a pensare a qualcos’altro. Altre volte vado avanti a scrivere per molto tempo ma con sempre meno convinzione e coinvolgimento e fingo di non sentire che qualcosa non va, ma in realtà so già che la abbandonerò. Oppure abbandono solo lo stile, l’impostazione, ne scelgo altri e tutto riprende a funzionare. Tuttavia a differenza di Eugenio non ho molti rimpianti quando abbandono un testo, mi dico subito che, evidentemente, avevo imboccato la strada sbagliata e stavo perdendo tempo, sono abbastanza fatalista, come tutte le persone pigre. Viceversa quando vedo che passano le settimane e i mesi e sto ancora scrivendo con entusiasmo sono felice, ma come si è capito tendo a scaricare le responsabilità della cosa sulle idee stesse. Al momento sto lavorando alla storia di un uomo che ha perso ciò a cui teneva di più e che, per ritrovarlo, deve attraversare una foresta magica vicino alla tangenziale (ovest) di Milano.

Ancora grazie a Mauro Zucconi per il suo tempo e per averci raccontato tanto di sé. E voi, che aspettate a leggere il suo romanzo?

Se ve le siete perse, ecco le altre tappe del blogtour di “Io qui, tu là”. Nei prossimi giorni sarà online anche la recensione!

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