“La banda del formaggio” di Paolo Nori: per me Ermanno non è “strano”, ma “coraggioso”

Non saprei da che parte cominciare per descrivervi, o quantomeno provarci, la scrittura di Paolo Nori. Un flusso di coscienza, a voler essere fintamente acculturati? Un continuum senza fine di pensieri che si accavallano? Proverò a farvi un esempio: avete presente quei momenti in cui non potete far altro che pensare? Tipo quando siete sotto la doccia, o bloccati nel traffico, oppure magari su un treno? Vi capiterà di cominciare a pensare a una cosa e finire da tutt’altra parte. Le connessioni che si sviluppano sembrano casuali o incoerenti, sono rapide, quasi fulminee. A volte io avverto la necessità di fermarmi un attimo, incapace di stare dietro a questo groviglio di pensieri. E mi viene di ricominciare.

La stessa cosa capita a Ermanno Baistrocchi ne “La banda del formaggio” (Marcos y Marcos). Ermanno racconta cosa gli è successo nell’arco di venticinque giorni, dal 26 maggio al 19 giugno, mettendoci dentro una vita intera. Apre degli spiragli, si lascia andare ai ricordi, ci ripensa, si giustifica: “non volevo dir quello”, per poi dire che è meglio ricominciare.

TRAMA – Ermanno Baistrocchi fa l’editore. Va in giro a far notare le impercettibili differenze tra i suoi libri e quelli delle altre case editrici. Paride Spaggiari fa il libraio. Invita Ermanno nella sua libreria e poi gli fa delle telefonate bellissime, tutte piene di zioboja, ma non sono zioboja d’impazienza, sono come il basso che suona l’un due tre di un valzer, i suoi discorsi sono dei valzer, mettono di buon umore. Poi quando Ermanno ha la possibilità di comprare tre librerie Paride si offre di diventare suo socio, che si trova con una certa liquidità. E per quindici anni Ermanno, tutto quello che fa, ne ha prima parlato con Paride. Poi salta fuori che i soldi per le librerie a Paride venivano dalla banda del formaggio, come se i delinquenti a Parma fossero tutti della gente che non vedeva l’ora di comprarsi una libreria, come se avere una libreria fosse una specie di status symbol per i ladri. E finisce che Paride si butta giù dal settimo piano, e dicono che sia stato per via dei giornali, per via di quello che avevano scritto sopra i giornali, ma secondo Ermanno non era mica per quello. La banda del formaggio è la storia di un editore che un giorno sull’autobus prova affetto per il suo cuore che batte, e gli verrebbe da ricominciare. È la storia di un libraio che il delinquente avrebbe voluto farlo come Raskol’nikov, o come il conte di Montecristo, e che ha lasciato a suo nipote, che ancora non c’è, una filastrocca che Ermanno impara a memoria, per lasciarla anche al suo, di nipote, che chissà se mai ci sarà.

Ermanno è un editore, sulla sessantina, che affronta forse per la prima volta lo spettro della solitudine adesso che il suo amico Paride si è suicidato. La moglie è morta diversi anni prima in un incidente stradale, sua figlia ormai ha un compagno (quel genero che non si fa scrupoli a chiamare “deficiente”) e sembra non badare molto a lui.

E allora mi ero accorto che io quello che avei voluto, nella mia vita, che uno di quei giorni, mi chiamasse mia figlia e mi dicesse «Papà, sono fiera di te», e, io sto morendo, non succederà mai, purtroppo non succederà mai. 

Dunque Ermanno sembra essere rimasto solo con le sue lunghe riflessioni, che si sono tinte di scuro quando ha avuto un “attacco ischemico transitorio”, “l’offesa” come la chiama lui.

E io avevo pensato che io, dopo che era morto Paride, ero messo così, non avevno nessuno a cui dire «Ti ricordi?», non avevo neanche più una casa, a Parma, meno male che avevo ancora il mio commercialista, ma anche a Bologna, io dopo la morte di Paride non avevo più nessuno nessuno, a parte il mio commercialista e poi dell’altra gente che era delle gente che quando qualcuno mi telefonava pensavo «Chi cazzo è che rompe i coglioni?».

Paride era un libraio ma anche un ladro, figlio e nipote di ladri, ed Ermanno non gli ha mai veramente chiesto da dove siano arrivati i soldi che gli ha dato per comprare quelle librerie. Perché a Ermanno non gli è mai importato, e alla fine non interessa nemmeno al lettore.

Non manca una riflessione sulla letturatura, su dove sia bene trovarla, sulla differenza tra libri fatti bene e libri fatti male e sul modo magico e inaspettato con il quale alcuni libri ci feriscono, o forse più semplicemente, ci lasciano un segno. E allora dopo aver letto “Il Maestro e Margherita” sappiamo riconoscere “l’odore di parrucchieria”, o dopo “Il Grande Gatsby” ci ricordiamo che il padre del protagonista gli aveva insegnato un’unica cosa: “Non giudicare”. Pagine che rimangono dentro di noi per tornare a galla, inattese, confortanti.

Magistrale da parte di Paolo Nori l’uso della parola: ci sono pagine che sono dei capolavori creativi, piene di estro e di attaccamento al reale. L’autore maneggia le parole ad arte, le usa a suo piacere, incanta il lettore e fa sembrare la scrittura solo un gioco, nel quale immergersi senza più regole.

Ho letto che in molti hanno trovato Ermanno “strano”. Io invece lo definirei “coraggioso”. Sì perché ci vuole un gran coraggio per aprirsi in questo modo, per raccontarsi, per esporsi al giudizio degli altri senza, come si è sempre più soliti fare oggi, fornire una versione dei fatti patinata e ritoccata. Ermanno è per come si descrive. Chapeau, a chi ancora riesce a essere se stesso.

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