“La collagista” di Francesca Mazzucato: molto intenso

La collagista” di Francesca Mazzucato (Arkadia Editore) è un romanzo molto intenso. Una scrittura evocativa ed emotivamente di impatto, una storia da assaporare in ogni pagina.

TRAMA – Lei è una donna sola. Vive a Parigi dove lavora come collagista. Non ha un nome e non lo vuole, è in fuga dalla sua identità passata, da quello che ha vissuto in un prima che non l’abbandona. Per tutta la vita si è sentita braccata, inseguita. Adesso si nasconde. Da chi o da cosa non si sa. Un mistero che si svela pagina dopo pagina, seguendo l’inquietudine della protagonista, il suo esistere in bilico alla ricerca di luoghi provvisori, camere d’albergo, brasserie, conversazioni con sconosciuti. Solo quando ritaglia e incolla immagini che prendono forma su cartone, fogli bianchi e neri o tela, la donna sente che può alleggerire il peso che porta con sé, provare una provvisoria pace.

“Mi chiamo F. e sono una collagista. Non c’è molto da dire. Da anni cerco di scrollarmi via ogni identità”. Si presenta così la protagonista de “La collagista“, ma il lettore si accorge presto che, “da dire”, c’è un sacco di roba.

Cosa fa una collagista? “Aggiusto il mio mondo risistemandolo come voglio, distruggendolo e ricomponendolo”. Sin da queste prime battute, capiamo che c’è una ricerca, il bisogno di sanare qualcosa, di aggiustare pezzi o di mischiarli, di tentare di riscrivere un finale.

E ancora: “Devo capire cosa conta, il gesto nel suo svolgersi indipendentemente dalla propria volontà, dove nasce e dove sorge il mistero creativo, la vibrazione magica che tutti portiamo dentro (l’ho cercata ovunque e male, in passato, sapevo che c’era, ma ero inerme di fronte alla confusione della vita e venivo tratta in inganno)”.

Le riflessioni sul suo lavoro (l’espressione di sé si può definire “lavoro”?) si allargano e di estendono, si intersecano con le riflessioni sulla vita, sul rapporto con gli altri, su quella vulnerabilità e fragilità alla quale il più delle volte non si può dare un nome, va solo apprezzata. Ammirata, interiorizzata.

E ancora si annodano a ricordi del passato, ad amori impulsivi o passeggeri, a serate che scorrono senza importanza dove però ogni attimo potrebbe contare. Basta solo riconoscerlo.

E poi arrivano a lui. A.

I pezzi della storia giungono a frammenti, come in un collage. La scoperta di sé, il dialogo interiore, va di pari passo al lavoro creativo, riprendendone le tracce, i rituali, i pezzi di vita annotati, ricomposti. Qual è il risultato finale? Arriva mai a essere quello atteso? Quello agognato?

“Avrei accettato ogni cosa” di A. Ma perché? “A volte sbiadisce il ricordo di te, che poi torni, non so perché ma comunque torni”. E F., invece, perché resta? Perché attende?

Come si fa a guarire da un rapporto così? “Decisi che dovevo aprire il cuore alle immagini che avevo dentro, che dovevo smettere di esprimermi”, dice, ma allo stesso tempo si lamenta del vuoto che prova sotto la pelle, della mancanza che la divora dall’interno. Come si fa a essere entrambe le cose? Come si fa a esprimersi credendo di non aver nulla da dire? Come si rimane in bilico essendo frammenti?

F. è la sua arte. Pezzi, storie, incastri.

Prova a guarire da quell’inquietudine mettendo distanza, ma serve solo per brevi periodi. Le città non sono mai sfondo, coincidono con le persone, “assorbono, monopolizzano”. Non sono luoghi, sono l’asfalto che inghiotte le ombre che proiettiamo, sono le strade che impongono una direzione, sono le porte che favoriscono incontri o che fanno sentire ancora più soli.

L’autrice ha saputo, tramite istantanee, tratteggiare un personaggio complesso, stratificato, che non si arriva mai a conoscere o a comprendere fino in fondo. Come un’opera d’arte si contempla, da vicino per cogliere i particolari, da lontano per una visione di insieme. Non si allineano, non combaciano, allora l’occhio deve andare ancora più in profondità per strapparne i contorni.

O forse no.

Forse va bene lasciare F. alle sue convinzioni dopo aver sviluppato le proprie.

Non deve essere stato facile scrivere “La collagista“. Quel tipo di sofferenza non si può raccontare senza sapere che sapore abbia. Ci si può narrare intorno, ma un lettore conosce la differenza tra racconto e finzione. E qui, della seconda, non c’è traccia.

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