“The help” di Kathryn Stockett: a mio parere, un’occasione persa

Arrivo in notevole ritardo alla lettura di “The help” di Kathryn Stockett (Mondadori), lo so, ma sono contenta di aver avuto la possibilità di recuperare, anche a distanza di anni. Mi scuso sin da ora se troverete in mezzo alla recensione delle riflessioni personali, ma è stato quasi impossibile non lasciarsi coinvolgere.

TRAMA – È l’estate del 1962 quando Eugenia “Skeeter” Phelan torna a vivere in famiglia a Jackson, in Mississippi, dopo aver frequentato l’università lontano da casa. Skeeter è molto diversa dalle sue amiche di un tempo, già sposate e perfettamente inserite in un modello di vita borghese, e sogna in segreto di diventare scrittrice. Aibileen è una domestica di colore. Saggia e materna, ha allevato amorevolmente uno dopo l’altro diciassette bambini bianchi, facendo le veci delle loro madri spesso assenti. Ma il destino è stato crudele con lei, portandole via il suo unico figlio. Minny è la sua migliore amica. Bassa, grassa, con un marito violento e una piccola tribù di figli, è con ogni probabilità la donna più sfacciata e insolente di tutto il Mississippi. Cuoca straordinaria, non sa però tenere a freno la lingua e viene licenziata di continuo. Sono gli anni in cui Bob Dylan inizia a testimoniare con le sue canzoni la protesta nascente, e il colore della pelle è ancora un ostacolo insormontabile. Nonostante ciò, Skeeter, Aibileen e Minny si ritrovano a lavorare segretamente a un progetto comune che le esporrà a gravi rischi. Il profondo Sud degli Stati Uniti fa da cornice a questa opera prima che ruota intorno ai sentimenti, all’amicizia e alla forza che può scaturire dal sostegno reciproco. Kathryn Stockett racconta personaggi a tutto tondo che fanno ridere, pensare e commuovere con la loro intelligenza, il loro coraggio e la loro capacità di uscire dagli schemi alla ricerca di un mondo migliore.

Come mi succede spesso, inizio dalla fine del libro, precisamente da una specie di appendice autobiografica, collocata dopo i ringraziamenti. L’autrice scrive: “Sono quasi certa di poter affermare che nessuno della mia famiglia abbia mai chiesto a Demetrie come ci si sentisse a essere una nera al servizio di una famiglia bianca in Mississippi. È un’idea che non ci ha mai sfiorato la mente. Si trattava di vita quotidiana: non ci si sentiva obbligati a studiare a fondo la questione”. Due cose mi hanno colpita: il fatto che era una cosa “normale” che una nera (odio questa parola, vi giuro) servisse in una famiglia di bianchi, non c’erano domande da porsi, e che l’autrice ammetta che, anni dopo che la loro domestica è morta, abbia voluto “approfondire la questione”, in qualche modo per riscattarsi.

Di certo le fa onore, ma una cosa su tutte rimane: chi può davvero dirlo come si sentisse una donna di colore al servizio di una famiglia di bianchi, negli anni Sessanta, in Mississipi? Nessuno di noi. Nemmeno l’autrice, mi dispiace dirlo. Apprezzo lo sforzo che ha fatto nel provare ad avvicinarsi alle loro emozioni, alle loro paure più profonde, ma probabilmente avrebbe fatto meglio a usare la terza persona.

Lei non ha mai dovuto rimanere tutto il giorno in piedi perché in casa della donna bianca non ci si può sedere, non ha mai dovuto mettersi in fondo all’autobus (forse non l’ha nemmeno mai preso), non ha dovuto lottare contro pregiudizi ignobili o fare i propri bisogni in un altro bagno perché “portatrice di malattie”. Sono cose che faccio fatica ad immaginare, non mi sognerei mai di metterle per iscritto in prima persona.

Mi dispiace essere dura su questo punto, non voglio dire che il libro sia brutto o che non abbia comunque il merito di puntare i riflettori su un periodo storico e su alcune devianze che la nostra società si porta ancora addosso, ma la scelta stilistica mi ha lasciato forti dubbi. Credo inoltre che in questo modo l’autrice sia rimasta vittima di stereotipi e di banali cliché. Sembrerà assurdo ma ho trovato molto più interessanti le ultimissime pagine del libro, quelle a cui accennavo prima, in cui lei racconta la sua esperienza di ragazzina cresciuta da una donna di colore pronta a tenerle la mano quando ne aveva bisogno. O meglio, che sapeva ancora prima di lei quando ne avesse bisogno.

Sono brevissimi flash ma così autentici da mozzare il fiato. E allora per questo mi arrabbio ancora di più: perché non ha scritto questo? Perché non raccontare una verità così di impatto proprio perché sperimentata sulla propria pelle? Non è detto che io mi lasci impressionare dal racconto fittizio di una donna di colore, mi ha colpito di più sapere quanto questi ragazzi si affezionassero alle loro tate, per poi prenderle al loro servizio e trattarle come schiave solo qualche anno dopo.

“Torti remoti, un interessante problema di filosofia morale. I torti lontani nel tempo ci sembrano meno sbagliati solo perché l’impressione che ne abbiamo è meno vivida?”, scrive McCall Smith ne “Il club dei filosofi dilettanti” il libro che ho iniziato subito dopo “The help”. Come potrebbe sembrare meno sbagliato? O come è potuto sembrare giusto a così tante persone? Ci sono fatti che forse non capiremo mai, probabilmente perché non viviamo immersi nel tempo in cui sono avvenuti, ma questo libro inevitabilmente mi ha fatto pensare al nostro oggi.

Penso ai poliziotti bianchi americani che uccidono i ragazzi di colore, sparando senza un reale motivo; penso alle persone che mi dicono che a Lampedusa non ci vanno perché ci sono gli immigrati; ai terroristi che uccidono in Europa accecati e manipolati da promesse che non possiamo capire. La verità è che non ci sono più i bagni per la gente di colore, ma continuiamo ad avere paura del diverso, a non capirlo, a non accettarlo.

“A Jackson ogni persona di colore si piazza davanti alla prima tivù che trova per guardare Martin Luther King, nella capitale della nostra nazione, che dice di avere un sogno”, si legge in un passaggio del libro e mi sono ritrovata a chiedermi se oggi esistono uomini così coraggiosi e che sogno avrebbero. Forse sempre quello di uguaglianza, che rimane ancora un’utopia.

Ho scoperto che “The help” rientra nel genere historical fiction, ovvero quello che si ispira alla realtà ma racconta di personaggi di fantasia. Di recente ho visto un film tratto da un libro, “Il diritto di contare”, che invece parla di donne realmente esistite e che hanno dato un contributo significativo, sia alla Nasa che alla lotta contro la discriminazione razziale e l’ho trovato molto emozionante. Non so com’è il libro, ma il film è assolutamente da vedere. Per quanto riguarda “The help” per me rimane un grosso “nì”. Peccato, davvero peccato.

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