“Orfani bianchi” di Antonio Manzini: un romanzo che mi ha convinta a metà

Ancora una volta mi ritrovo a pensarla in modo diverso, ancora una volta sto per scrivere una recensione non proprio piena di entusiasmo di un libro che non in molti considerano un capolavoro. Sto parlando di “Orfani bianchi” di Antonio Manzini (Chiarelettere) che mi ha convinta a ondate, lasciandomi colpita per alcuni aspetti e dubbiosa per altri.

TRAMA – Mirta è una giovane donna moldava trapiantata a Roma in cerca di lavoro. Alle spalle si è lasciata un mondo di miseria e sofferenza, e soprattutto Ilie, il suo bambino, tutto quello che ha di bello e le dà sostegno in questa vita di nuovi sacrifici e umiliazioni. Per primo Nunzio poi la signora Mazzanti, “che si era spenta una notte di dicembre, sotto Natale, ma la famiglia non aveva rinunciato all’albero ai regali e al panettone”, poi Olivia e adesso Eleonora. Tutte persone vinte dall’esistenza e dagli anni, spesso abbandonate dai loro stessi familiari. Ad accudirle c’è lei, Mirta, che non le conosce ma le accompagna alla morte condividendo con loro un’intimità fatta di cure e piccole attenzioni quotidiane. Ecco quello che siamo, sembra dirci Manzini in questo romanzo sorprendente e rivelatore con al centro un personaggio femminile di grande forza e bellezza, in lotta contro un destino spietato: il suo, che non le dà tregua, e quello delle persone che deve accudire, sole e votate alla fine. “Nella disperazione siamo uguali” dice Eleonora, ricca e con alle spalle una vita di bellezza, a Mirta, protesa con tutte le energie di cui dispone a costruirsi un futuro di serenità per sé e per il figlio, nell’ultimo, intenso e contraddittorio rapporto fra due donne che, sole e in fondo al barile, finiscono per somigliarsi. Dagli occhi e dalle parole di Mirta il ritratto di una società che sembra non conoscere più la tenerezza.

In diverse recensioni ho letto che Antonio Manzini “ribalta gli stereotipi” e invece a me è sembrato esattamente il contrario, ovvero che il romanzo ne fosse farcito. Vero, l’autore ha voluto come protagonista una badante moldava, Mirta, una scelta per certi versi coraggiosa, che poteva essere vincente se non ci avesse messo intorno tutto questo buonismo e se non avesse riempito il romanzo di luoghi comuni.

Mirta continua a dire che gli italiani fanno come se non esistesse, non le rivolgono la parola, non la salutano nemmeno. Ora, non voglio dire che siamo il massimo dell’educazione, ma che razza di gente incontra? Qui, se un “non palermitano” va al mercato a comprare un po’ di frutta di certo non è il saluto che gli manca. A Roma sono tutti così? Nemmeno uno c’è di educato e gentile? Ci credo poco. Ci può stare in un paio di occasioni, ma sempre mi sembra esagerato. Possibile che riceva solo schiaffi, solo maleducazione, sono sguardi di ribrezzo?

Manzini ha ragione nel dire che tutte queste persone che arrivano in Italia nella speranza di trovare un lavoro che nel loro paese natale manca, per poter mandare dei soldi alla famiglia che hanno lasciato, spesso trovano come impiego quello che noi italiani non vogliamo fare: le pulizie nei condomini, le badanti a quegli anziani che per molti sono solo un peso e una spesa in più, giardinieri, contadini. E va bene che Manzini ci inviti a riflettere, va bene che ci voglia lasciare un messaggio preciso nel momento in cui ci bacchetta per come ci poniamo nei confronti degli altri, ma gli vorrei anche dire che io sono la prima che prende l’autobus e non mi sono mai permessa di offendere nessuno o di lanciare occhiate schifate.

La storia di Mirta non può lasciare indifferenti, per questo, come ho scritto sopra, il libro mi è piaciuto a ondate. La sua disperazione a volte è proprio tangibile, alcune mail sono strazianti (anche se, sul linguaggio che in qualche occasione usa, avrei qualche appunto perché perde del tutto di realismo), la mancanza del figlio è lancinante e arriva dritta allo stomaco, ma secondo me Manzini in alcuni punti ha forzato un po’ troppo la mano, sfociando nella banalizzazione.

Da lui, scrittore di gusto e con un garbo riconosciuto, non mi aspetto frasi del tipo: “Hanno tutto quello che vogliono ma non sorridono mai”. Non lo so, è come se il messaggio che voleva trasmettere mi fosse arrivato inquinato. È difficile da spiegare, dato che si tratta di mere sensazioni soggettive, ma probabilmente avevo aspettative troppo alte.

Mi è arrivata dritta al cuore una considerazione di Mirta:

Come si fa a sopportare di essere colpevole di cose che non hai mai pensato? Solo perché altri quelle cose le fanno. Tutti i giorni. E quindi per riflesso le fai anche tu? Sarebbe mai arrivato il giorno in cui sarebbe stata considerata né più né meno che una donna e giudicata per le sue azioni? Fino a quando ce l’avrebbe fatta?

Non voglio paragonarmi alle sofferenze che deve patire Mirta, non ci penso nemmeno, ma concedetemi di dire che da siciliana spesso mi è capitato di essere associata a un concetto di cui la gente si riempie la bocca senza sapere cosa vuol dire viverci in mezzo, rimanerci impastata senza esserne legata.

Oltre Mirta, credo che sia degna di nota anche Eleonora, l’anziana di cui si occuperà nella seconda parte del romanzo. Sì perché “Orfani bianchi” non accende solo i riflettori sulle condizioni di vita della badante, ma anche sulla sua assistita. Ridotta a un mucchio di ossa, medicine e lividi, da girare ogni due ore di notte per il timore che arrivino le piaghe, nutrita con papponi informi, il cui unico svago è la televisione. “Voglio morire”, dice Eleonora a Mirta, e lo fa con una lucidità disarmante, con una determinazione che ghiaccia il sangue nelle vene.

Eleonora sa che anche per morire avrebbe bisogno di aiuto, non potrebbe farlo da sola. Sarebbe fuori luogo cominciare a discutere di eutanasia o di morte assistita, ma il modo in cui Eleonora si sente alla stessa stregua del cane di casa è stato un pugno allo stomaco.

Infine, vi lascio i miei dubbi anche sul finale del romanzo. Si capisce bene che la tragedia è dietro l’angolo quando le cose a Mirta sembrano poter andare per il verso giusto. Ho fatto diverse ipotesi mentre leggevo, ma non ci ho preso. Anche in questo caso, mi è sembrato che l’autore abbia forzato un po’ troppo la mano. Ai fini della storia e del messaggio importante, mi chiedo se era davvero necessario. Forse Manzini pensava che con un lieto fine non avremmo imparato la lezione? Che Mirta ci sarebbe rimasta meno nel cuore?

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