“Deathdate” di Lance Rubin: uno young adult a cui davvero non manca nulla

Ho letto tutto d’un fiato, una domenica pomeriggio, “Deathdate” di Lance Rubin (DeA), uno young adult a cui davvero non manca nulla: amore, amicizia, famiglia, brivido, mistero, ma soprattutto, tanta ironia.

LA TRAMA – Vi siete mai chiesti come sarebbe il mondo se tutti conoscessero la data precisa della propria morte? Un luogo in cui nessuno a più nulla da vincere o da perdere. Questo è il mondo di Denton Little, diciassettenne con un’unica certezza: morirà la notte del ballo scolastico. Ha avuto una vita sempre piuttosto normale, ma adesso che è quasi giunto alla fine sente di non avere più tempo da perdere. In meno di quarantotto ore vuole fare più esperienze possibili, dalla prima sbronza alla prima volta. Il tutto si complica quanto Denton incontra un losco personaggio che dice di avere un messaggio da parte della madre, defunta da anni. Le ultime ore del giovane diventano così una corsa contro il tempo, alla ricerca della verità e forse di una via d’uscita.

Mi hanno fatto davvero sorride tutti i discorsi che i ragazzi fanno circa il “prima”, quando non si sapeva la propria data di morte. Della serie: “Ma come facevano quando non c’era internet?”. Ho trovato anche molto interessante il modo in cui l’autore descrive i riti precedenti alla propria morte: il funerale è anticipato in modo che il quasi-defunto possa prendervi parte e fare anche un autoelogio e il giorno della propria morte si compie La Seduta, ovvero si rimane in casa, con i parenti e gli amici più stretti, aspettando che succeda l’inevitabile.

Sì, perché, in quest’epoca che descrive Rubin, quando arriva il tuo giorno non hai davvero scampo, è inutile sfuggire alla signora con la falce. Tanto vale quindi, mettersi comodi sul divano di casa e aspettare. Ma Denton non è dello stesso avviso, e nelle 24 ore del fatidico giorno della sua morte succede ogni cosa, in un crescendo di aspettative, farcito di vero humor, fino al finale che lascia davvero a bocca aperta.

Attenzione però: il libro ha un seguito che ancora in Italia non è arrivato. Speriamo che venga pubblicato presto, ci sono troppe domande rimaste in sospeso!

Una parte che mi ha fatto riflettere è all’inizio del libro, quando Denton ripercorre la sua giovane vita, dato che si appresta a viverne gli ultimi momenti. La sua è una riflessione che secondo me facciamo – mi ci metto pure io – in tanti, ovvero la smania di lasciare un segno, un qualcosa che dimostri il nostro passaggio. In poche parole, non rimpiangere nulla, non pensare che non abbiamo sprecato il tempo che ci è stato concesso e che abbiamo fatto di tutto per realizzare i nostri sogni.

Volevo essere normale. Ma ora mi guardo intorno nella mia camera – i quadretti bianchi e neri della trapunta, gli inutili trofei dei tornei di calcio delle elementari, gli scaffali ingombri di libri e film, la bacheca con le foto di me e Paolo, e di me e Taryn, e di me e la mia famiglia – e mi domando se non ho un po’ esagerato con la normalità. Non lascerò un’eredità significativa, avrei potuto fare molto più di così.

“Avrei potuto fare molto più di così”. Non so voi, ma a me capita spesso di dirmelo, magari a fine giornata. Per fortuna non conosciamo la nostra data di morte, ma questo monito secondo me dovrebbe accompagnarci a ogni nuovo giorno, in cui dovremmo provare a fare più del giorno prima.

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