“Appalermo, Appalermo!” di Carlo Loforti: Mimmo Calò è un personaggio che non dimenticherete

(Recensione e foto di Azzurra Sichera)

Carlo Loforti è uno scrittore. Molti ci provano, tanti si appellano in questo modo senza mai essere entrati in una libreria, ma solo pochi (pochissimi) lo sono per davvero.

Con “Appalermo, Appalermo” (Baldini & Castoldi), Carlo Loforti ci regala un personaggio davvero unico nel suo genere. Mimmo Calò trascorre una vita che di potrebbe definire “serena”: ha un lavoro che lo ha reso un personaggio pubblico nella sua città, grazie alle sue telecronache delle partite del Palermo in una tv locale, non paga mai un caffè al bar, è un pallista anche se dal cuore puro (o almeno così lui credeva fino ai 44 anni), insopportabilmente maschilista, cosa inutile quando c’è da prendere una decisione, ancora più inutile quando si mette a filosofeggiare sui massimi sistemi della vita, con le idee molto ma molto chiare su come si faccio uno sfincione degno di questo nome. Anche se secondo me, mia madre lo supera.

Sfincione a parte, Calò a un certo punto perde il lavoro e da quel momento in poi non si capisce se finisce dentro un film di Tarantino o se vanno in scena le Comiche. So solo che si ride, e tanto.

Carlo Loforti riesce a descrivere alcuni atteggiamenti di noi siciliani in modo impeccabile (ah, quanto avrei voluto essere al battesimo della “principessaaaaa”); sa quando si deve usare l’espressione che più ci caratterizza – “minchia!” – senza mai cacciarla fuori posto (guardate che non è facile, abusare o lesinare sono insidie sempre in agguato); è capace di spingere il lettore al limite nelle proprie emozioni sul protagonista della vicenda.

Sì perché a Mimmo Calò o lo ami o lo odi. Io il più delle volte l’ho trovato insopportabile, in alcune sembra un genio in altre un minchione totale (scusate ma per parlare di questo libro non posso non ricordarmi di essere palermitana), ha tutta la mia comprensione quando deve avere a che fare con quella suocera o con la tirchiona di sua madre, ma gli spaccherei la faccia quando dice l’ennesima minchiata a quella santa donna di Barbara, finendo per affondare ancora di più nei guai. Ma poi come si può fidare di uno come il direttore di banca? Ma dici vero??

Sta di fatto che per farvi un’idea di Mimmo Calò dovete leggere questo libro e soprattutto il glossario finale che ho trovato geniale e illuminante. La mia definizione preferita è quella di negghia:

La negghia è, nel gergo palermitano, ciò che non serve assolutamente, eppure se ne sta lì, perché nessuno si piglia il pensiero di buttarla nella spazzatura. La negghia è una cosa sì, ma è come se avesse un’anima, proprio per via di questa sua attitudine alla sopravvivenza. Il palermitano, che è filosofo, si sa, eleva il sostantivo ad aggettivo e così, senza troppi sforzi di fantasia, negghia diventa pure l’essere umano. Quando non serve, quando è una cosa inutile, insignificante. E cioè, nella maggior parte dei casi. 

Io, se proprio devo dirla tutta, a Mimmo Calò non glielo avrei dato un finale da famiglia del Mulino Bianco. Mi sarebbe piaciuta una nota più amara nelle ultime pagine del libro che così ha perso quella tensione che c’è stata lungo tutto il viaggio. Peccato, ma forse Mimmo ne combinerà presto un’altra, chi lo sa.

Speriamo che, di qualunque cosa si tratti, o di chiunque si parli, Carlo Loforti ci faccia immergere presto in un’altra storia.

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